Informazione sotto attacco, nel 2020 uccisi 50 giornalisti. L’ultima vittima aveva 27 anni. Rsf: 387 i cronisti in carcere

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Aveva solo 27 anni l’ultimo giornalista ucciso in questo drammatico 2020 per l’informazione, che si chiude con un bilancio di 50 vittime.
Andrés Felipe Guevara, colombiano, era stato ferito lunedì scorso in un attentato a Cali (Dipartimento del Valle del Cauca) ed è morto il 27 dicembre a causa della gravità delle ferite riportate. La notizia del decesso di Guevara, che lavorava per il periodico Q’hubo, è stata diffusa dalla madre che parlando con la polizia aveva affermato che il figlio non aveva ricevuto minacce.
Quella di Andrés Felipe è stata una vera e propria esecuzione. Era in compagnia di un amico, rimasto ferito,  quando è stato avvicinato dai killer che gli hanno sparato, colpendolo due volte allo stomaco, una al torace ed un’altra ad una gamba.
Il direttore della Fondazione per la Libertà della Stampa (Flip) Jonathan Bock ha da subito sostenuto che “esistono motivi validi per ritenere che l’attentato sia stato motivato dalla sua attività giornalistica”.
È una strage continua, con cifre che anno dopo anno non accennano a diminuire. Nel 2020,  dal 1° gennaio al 27 dicembre, sono stati uccisi 50 giornalisti. Un numero simile al 2019 (quando sono stati assassinati 53 cronisti), sebbene quest’anno gli operatori dell’informazione sul campo a causa della pandemia di Covid-19 fossero in numero minore.

La maggior parte ha perso la vita in Paesi considerati ‘in pace’. Nel 2016, il 58% delle vittime dei media si era verificato in zone di guerra.
Ora solo il 32% dei decessi è avvenuto in Stati dilaniati dalla guerra come la Siria o lo Yemen o in Paesi con conflitti di bassa o media intensità come l’Afghanistan e l’Iraq. In altre parole, il 68% (più di due terzi).

Ciò che sconvolge è il numero delle vittime che non erano inviati di guerra, come i 10 colleghi assassinati in Messico, 4 in India, 3 nelle Filippine e altrettanti in Honduras.

Impressionante anche il dato dei giornalisti in carcere, 387  al 29 dicembre. Almeno 40 sono stati arrestati per aver diffuso, secondo le accuse, fake news sull’emergenza Covid-19.

Emblematico in caso di Zhan Zhang, ex avvocato passata al giornalismo civile condannata a quattro anni per aver “raccolto litigi e provocato problemi” in relazione ai fatti iniziali della pandemia quando a Wuhan si parlava di “polmonite misteriosa”. I resoconti di Zhang, 37 anni, dalla città focolaio del virus furono condivisi da migliaia di persone sui social media, attirando così l’attenzione delle autorità cinesi che lo scorso maggio l’hanno arrestata.

Dai tre rapporti stilati da Reporter senza frontiere, Committee to Protect Journalists e Federazione internazionale dei giornalisti, il sindacato mondiale, rivelano  un panorama devastante per l’informazione.

In particolare, secondo il rapporto annuale di RSF pubblicato oggi, il numero di giornalisti detenuti in tutto il mondo a fine 2020 è quasi stabile rispetto all’anno scorso, nonostante un aumento degli arresti arbitrari in connessione con la crisi sanitaria. Come nel 2019, dove Reporter Senza Frontiere aveva identificato 389 giornalisti incarcerati per aver esercitato la loro professione, cinque paesi rappresentano più della metà (61%) degli arresti.
La Cina resta in testa con 117 giornalisti (professionisti e non) detenuti, davanti a Turchia (87), Egitto (38), Arabia Saudita (34), Vietnam (28) e Siria (27).
Cifre che rivelano come, in tutto il mondo, il numero degli operatoti dell’informazione incarcerati rimanga a un livello elevato.
E le donne, sempre più numerose nella professione, non vengono risparmiate, come il segretario generale di RSF, Christophe Deloire.
Secondo il rapporto, 42 di loro “sono attualmente private della libertà”, rispetto alle 31 del 2019 (+ 35%). In totale, 17 sono state “gettate dietro le sbarre” durante l’anno, di cui 4 in Bielorussia, centro di “una repressione senza precedenti dopo” la rielezione considerata fraudolenta di Alexander Lukashenko. Nel rapporto si segnala inoltre un aumento degli arresti legati alla crisi sanitaria, con 14 giornalisti “ancora dietro le sbarre” per il monitoraggio della pandemia, di cui 7 in Cina.
L’Ong, che ha lanciato a marzo l’Osservatorio Covid 19 ha registrato tra febbraio e fine novembre “più di 300 incidenti direttamente legati alla copertura giornalistica della crisi sanitaria”, che hanno coinvolto quasi 450 giornalisti.


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