Dalla politica come spettacolo allo spettacolo come politica

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La Cgil, a partire dal suo segretario generale Maurizio Landini, è impegnata seriamente sulla crisi dei mondi della cultura e dello spettacolo. Attraverso incontri e documenti, con interventi decisi sul governo. Lunedì scorso i vertici delle tre confederazioni hanno, insieme, sottolineato nel promemoria inviato al presidente del consiglio  l’importanza dei settori in questione.

E’ persino ovvio evocare un interesse sindacale, che dovrebbe essere scontato. Eppure, storicamente non è sempre stato così, considerandosi le attività non immediatamente connesse all’antico ciclo produttivo (fordista) meno significative. Persino con qualche implicito richiamo alla vulgata marxiana (che Marx non ha mai sostenuto) sulla faglia tra struttura e sovrastruttura. Paradossalmente, insomma, ciò che usciva da una visione schematica della struttura capitalistica veniva posposto ai temi considerati degni di maggiore rilievo.

Ora, finalmente, l’ordine del discorso pare cambiare. Certamente, un aumento di sensibilità. Ma è il frutto forse di più della situazione drammatica di interi comparti messi al tappeto dalla pandemia. E proprio le chiusure dei luoghi della scena (dal teatro, alla danza, ai circhi) o dei cinema hanno fatto emergere le novità di questa era.

Innanzitutto,  il lavoro culturale gode solo parzialmente di tutele. Già. Le tutele sono state immaginate nei momenti alti dello sviluppo come componenti di una contrattualistica stabile e legata a paradigmi orari certi. Le otto ore furono una straordinaria conquista, com’è noto. Come la previdenza, le ferie. La crisi degli anni passati, ben prima del covid-19, ha via via dissolto quella impalcatura. Il precariato, l’impegno intermittente, fino alle forme di vero e proprio schiavismo, hanno preso il sopravvento, come hanno giustamente gridato coloro (una discreta moltitudine) che hanno manifestato il passato venerdì in parecchie città italiane.

Non solo. Ai tratti peculiari del lavoro-non lavoro di un mondo complesso e variegato dove la creatività non può sottomettersi alle regole del tardo fordismo analogico, si aggiunge il contesto in cui il conflitto si svolge. Quello del capitalismo delle piattaforme, del sopravvenire della catena del valore digitale, della riduzione del lavoro vivo falcidiato dai robot e dall’intelligenza artificiale. I fantasmi tecnologici si aggirano ormai prepotenti nelle redazioni come negli studi dell’immaginario.

I dati richiamati da Daniele Vicari su il manifesto di domenica primo novembre parlano chiaro. Siamo di fronte ad una media di retribuzione di 5000 euro all’anno, senza garanzie e protezioni di un Welfare che qui non abita proprio.

E’ vero che gli ultimi provvedimenti del governo (Agosto, Rilancio, Ristori e così via) sono stati un’aspirina utile. Tuttavia, non solo insufficiente sotto il profilo economico, ma asimmetrica rispetto alla tragedia in atto. La chiusura imposta alle sale introduce un che di luttuoso. La salute è un bene primario, non si discute. Però, il clima da Fahrenheit 451 non giova e deprime.

Esistono, poi,  ambiti meno appariscenti, riposti per loro natura, in affanno come pochi: archivi e biblioteche, i cui addetti – pressoché sempre bravi e professionali- sono di sovente dimenticati. Circola un bel Manifesto sul lavoro negli enti culturali (https://forms.gle/hGiN8uJSVc5nSo7A) assolutamente condivisibile, che entra a pieno titolo nella vertenza in corso.

Non siamo, dunque, nella routine zoppicante cui eravamo abituati. E’ bene che il governo e i ministri Catalfo e Franceschini prendano atto che si tratta di un’agonia vera, non di un malanno di stagione.

Che fare? E’ stato pronunciato nelle manifestazioni e non si può che concordare. E’ indispensabile un contributo stabile e permanente per il lavoro culturale, che è un effettivo reddito di cittadinanza. Senza conoscenza non si è nella civitas.

La produzione culturale è cruciale. L’arroventarsi dell’ambiente delle reti, con la moltiplicazione delle fonti emittenti, richiede che si valorizzino le fabbriche dei saperi. Il cosiddetto intrattenimento  non è un gioco o uno svago. E’ una sequenza del flusso della vita digitale. Panem et circenses, sul serio.


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