Storia di Enzo Biagi e del corridoio del quinto piano

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Non ho mai conosciuto Enzo Biagi ma come tanti telespettatori mi sono commosso rivedendolo in onda col suo ultimo programma, Rotocalco Televisivo. Ero stato da poco al Monte Sole, sui suoi luoghi partigiani di cui si coglieva l’eco nelle parole sagge e un po’ stanche di quell’uomo affaticato e lucidissimo, rientrato in tv dopo un’ingiustizia lunga 5 anni. Ricordo “l’esordio” intorno al 25 Aprile, il ritorno in Rai (come ospite) di Daniele Luttazzi, una intervista ad un giovanissimo Roberto Saviano ed un’altra al Professor Veronesi. Lo studio -grazie alla collaborazione del centro Rai di Milano- era stato ricavato in una stanza di casa Biagi, così da realizzare (questa volta letteralmente) una delle sue regole auree: “Le mie redazioni devono essere camera e cucina”, ridotte cioè all’essenziale, pratiche, operative, senza fronzoli.

Quando entrai in Rai alcuni anni dopo, il destino mi concesse di lavorare al quinto piano di Corso Sempione, il “suo” piano: gli studi radiofonici sul lato destro, la redazione di Caterpillar sulla sinistra. In fondo al corridoio vagamente “Shining” c’è una porta che separa il palazzo originale di Gio Ponti dall’ala nuova dell’edificio e che ospita le redazioni di alcuni programmi e testate nazionali. La stanza di Biagi era una delle ultime a destra, appena sorpassata una curva a gomito che nemmeno al Gp di Monza. Negli anni ho avuto la fortuna di lavorare con alcune persone che erano l’ossatura de “Il Fatto”. Su tutte, la produttrice esecutiva Marta Busi. Un giorno mi mostrò una stanza alla fine del corridoio. Due scrivanie e diversi grossi armadi. Dentro, disposte in ordinati raccoglitori, tutte le scalette e i testi del programma. Non era la classica e anonima stanza Rai, era una cassaforte che sembrava resistere all’urto del tempo e del chiasso circostante. Marta custodiva quegli armadi con un amore che andava oltre il lavoro, c’era dentro qualcosa tra orgoglio, senso di famiglia e protezione e spirito civile che non è facile rendere a parole, ma che si dimostrava facilmente nella sua dedizione.

Mi tenne un paio d’ore a sbirciare, senza fretta, ricordo di aver voluto cercare subito la scaletta della prima puntata dopo “l’editto bulgaro”, e poi quella con le interviste a Benigni e a Mastroianni, e poi mi soffermai su moltissime puntate di giorni “normali”, convincendomi sempre di più che il vero privilegio di questo lavoro non è raccontare il singolo “grande fatto” ma la quotidianità delle nostre vite, quei giorni apparentemente indistinti che -invece- fanno davvero volume. Usammo quella stanza come “covo creativo” per scrivere “Quelli che… Beppe Viola” (era il 2012, su internet/Rai play non ve n’è traccia per -credo- una questione di diritti: per me resta la cosa migliore che abbiamo fatto, di sicuro quella che mi rende più orgoglioso) e proprio per quella forma di magia la utilizzammo per ricreare l’ufficio di Beppe, con Bruno Pizzul (in carne ed ossa) e Carlo Sassi, Adone Carapezzi, Adriano De Zan e tanti altri amici presenti idealmente. Quei preziosi faldoni, se ho ben capito, sono stati successivamente messi in salvo e conservati, soprattutto per la consultazione delle nuove generazioni di cronisti: mi piacerebbe tanto risfogliarli, prima o poi. In quella stanza-scrigno Marta mi regalò un secondo grande insegnamento di Biagi: le produzioni, i documentari, i libri devono avete titoli brevissimi per stamparsi dritti nella mente. Un giorno mentre l’avevo accompagnata a fumare una delle sue cento sigarette quotidiane, le chiesi se poteva mostrarmi la stanza che era stata di Biagi.

Ci entrammo con circospezione, e anche se aveva ormai un nuovo inquilino, molto era rimasto intatto. E così, abbandonata su un divanetto, diede il via ai suoi ricordi: la volta in cui trovò una scorta armata per farlo trasmettere da qualche parte nella ex Jugoslavia; quando organizzandosi miracolosamente riuscirono ad essere la prima troupe ad arrivare a Ground Zero, credo il 12 Settembre; le domeniche in cui Biagi vedeva con Ottavio Missoni le partite in bassa frequenza; qualche leggendaria sfuriata e battuta non priva di cinismo su colleghi e personaggi politici; e ancora di quando “il Nonno” arrivava per primo ogni mattina con un cabaret di paste prese da Gattullo (nume tutelare della pasticceria milanese che contribuisce alla gioia e al colesterolo di molti concittadini sin dai tempi di Jannacci) e in riunione dettava a braccio testi e scaletta del programma, che la sera sarebbero cambiati pochissimo; l’amicizia di un gruppo di lavoro solido, Loris Mazzetti, Paola Nessi, Giancarlo Gjoielli, Ennio Chiodi e altri ancora; le gioiose transumanze verso il bar, guidate dallo stesso Biagi che non mancava mai di saldare il conto di tutti. Marta ne parlava con nostalgia, ma senza fronzoli. Come se fosse tutto solo sospeso, e quel circo potesse riprendere vita un attimo dopo, col Nonno che spuntava da un angolo e ripartiva a immaginare scalette e testi. La riaccompagnai al balconcino per un’altra  sigaretta, e anche se quel corridoio era sempre identico iniziai a guardarlo un po’ diversamente: da quel giorno,  camminandoci, avverto anch’io una sensazione di sospeso, di opportunità da cogliere. Sicuramente c’è lo zampino del Nonno, che oggi ne avrebbe compiuti 100.

Ps “Io c’ero” è il libro di Biagi che ho amato di più. Continua ad impressionarmi l’asciuttezza dello stile e la precisione delle domande. Anche le più semplici, all’apparenza “larghe”, arrivano sempre al punto con incredibile naturalezza.


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