Fellini e la casetta sul porto – Giorgio Franchini

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Se vi dico “La casina sul porto”, penserete a un dipinto impressionista, a una liaison sentimentale, o a una storia fiabesca, come infatti è, ma dai contorni purtroppo di una favola gotica. Non ci si stupisce, con Fellini ogni argomento diventa favoloso, benché non sempre nella direzione più giusta.

Per raccontare l’intera storia, sebbene non sia certo inedita, bisogna risalire al 1983 quando Fellini girò un film intitolato E la nave va. Un soggetto imprevedibile e misterioso nel quale per narrare metaforicamente la fine dell’armonia, Federico tirava fuori dal cilindro una trama da rabdomante, anticipando di un pugno di anni addirittura la sciagurata guerra dei Balcani. Un film in costume stile belle époque, ambientato nel primo Novecento, curatissimo fin nei minimi dettagli di décor, trucco, costumi, fotografia, interpreti e naturalmente nella colonna sonora per la scelta dei brani operistici. Immediatamente si grida al capolavoro e questa volta, dopo vari tentativi andati a vuoto nei decenni precedenti, la città natale non vuole mancare l’occasione: “E’ giunto il momento di togliersi il cappello di fronte a questo riminese”.

L’espressione encomiastica viene riportata letteralmente dall’architetto Giorgio Franchini, che a distanza di trentasette anni dall’avvenimento ha deciso di optare per la disclosure, cioè riesumare la memoria del computer e dare alle stampe, con l’Editore Panozzo, un libretto scritto con vena indiscutibilmente letteraria dal titolo sorridente e provocatorio: “… ma la casa mia ’n dov’è?”.  Suppongo sia pleonastico ricordare la poesiola recitata in Amarcord da Calzinazz, il muratore poeta, davanti ai compagni di lavoro e al capomastro Aurelio, babbo di Titta.

Lo spirito amaro e canzonatorio è pressoché il medesimo con cui l’eccellente architetto racconta per filo e per segno come sono andate ‘veramente’ le cose. Mentre l’amministrazione comunale e il sindaco Massimo Conti “maturano la decisione” di proiettare al Teatro Novelli l’anteprima nazionale di E la nave va, prodotta da Franco Cristaldi per la Gaumont e la RAI (presidente Sergio Zavoli), un gruppo di ardimentosi giovani riminesi si impegna ad organizzare il Fellini Day all’americana. Tra essi c’è Marco Arpesella, figlio del leggendario commendator Pietro proprietario del Grand Hotel, e accanto a lui Vincenzo Cultrera, l’uomo nero, presidente dell’Istituto Fiduciario Lombardo con buone quote nel lussuoso albergo e principale finanziatore dell’impresa.

Dopo tanti anni dall’avvenuto distacco dal ‘borgo’, e innumerevoli speciose incomprensioni, finalmente Fellini accetta di tornare, quasi un segno di pacificazione per una guerra mai dichiarata ma da cui i riminesi si sentivano sfregiati: non un solo metro di pellicola mai impressionata dal regista nella città natale, neppure durante la lavorazione di Amarcord. Una ferita sanguinante!

La RAI aderisce di slancio al Fellini Day mettendo in campo addirittura Domenica In, il programma di maggior ascolto nel pomeriggio domenicale, con una diretta televisiva di varie ore celebrata da Pippo Baudo. Manca ancora un’idea portante dell’omaggio: donare a Federico le chiavi della città su un cuscino di velluto cremisi? Cerimonia già vista e stravista. Ci vuole qualcosa di più originale, di più affettuoso e sorprendente. Ed è ancora l’architetto, fine esegeta del Maestro, a ricordarsi di un vagheggiamento scritto da Fellini in quella specie di sacro messale, stampato da Cappelli, che va sotto il titolo di La mia Rimini:

«Rimini: cos’è. E’ una dimensione della memoria (una memoria tra l’altro inventata, adulterata, manomessa) su cui ho speculato tanto che è nato in me una sorta di imbarazzo. Eppure debbo continuare a parlarne. A volte, anzi, mi chiedo: alla fine, quando sarai più ammaccato, stanco, fuori competizione, non ti piacerebbe comprare una casetta sul porto? Il porto dalla parte vecchia… Quando ero ragazzino, l’altra sponda del porto si presentava come uno scenario, fluttuante e galleggiante: sembrava un palcoscenico da cui arrivavano suoni attutiti e che ogni tanto, nella nebbia, scompariva. Io temevo che non tornasse più, che fosse stato inghiottito e cancellato dalla magia. Noi bambini da quella parte del porto non andavamo mai e ci sembrava un luogo più vago e lontano dell’America. Poi finalmente qualcuno mi portò e davvero la gente di lì mi apparve diversa, più misteriosa: come quel pescatore che rammendava le reti e intanto raccontava storie e a me sembrò un’ambiziosa anticipazione del mio avvenire, quello di diventare anch’io, a mio modo un cantastorie».

Ecco dunque il suggerimento impareggiabile: i giovani innamorati del regista si guardano “colpiti e perplessi”, anzi folgorati: una casetta sul porto? E quanto costa. Marco Arpesella taglia corto: “Facciamolo. Vediamo se possiamo regalare questa casa a Federico Fellini”.

L’architetto Franchini viene incaricato di reperire l’immobile, e lo individua in un corpo di fabbrica a schiera che comprende l’officina di Guido Mazzotti: l’edificio opportunamente demolito può trasformarsi in un dolce nido per Giulietta e Federico. Il proprietario accetta di buon grado la proposta economica, affare fatto. La cifra della promessa di vendita è di 156 milioni, 10 milioni all’accordo e i restanti da versare in sei rate successive dal 30 settembre 1983 al 15 settembre 1984. Arpesella firma, e Franchini procede alacremente al progetto di ristrutturazione.

Per completare degnamente lo spettacolo del Fellini Day è necessaria una scenografia grandiosa e il talentuoso architetto, sfoderando un indubbio talento da cinematografaro, concepisce una trovata superba: trasformare la facciata del Grand Hotel nell’immagine del Rex, il transatlantico di Amarcord. Qualche sapiente tramezzo, un fascio di antenne ben sistemate, un pavese di luci sfolgoranti: l’effetto sarà magico e dirompente!

Arriva il giorno della festa e Federico finalmente è lì, nella “sua” Rimini, sulla terrazza del Grand Hotel; rilascia per ore interviste a giornalisti di tutto il mondo, circondato da collaboratori, dive dello star system, attori, i produttori venuti da Roma, gli amici dell’infanzia, alti funzionari della RAI, un corteo interminabile di ammiratori e tutti i maggiori dignitari della città in allegra parata. Il pomeriggio televisivo risulta esaltante e indimenticabile nella rievocazione della carriera artistica del celebre figlio riminese, e alla fine giunge la cerimonia della premiazione con la consegna, a sorpresa, di un papiro arrotolato con il progetto della casina sul porto: “Una casetta di pescatori con un pezzetto di giardino dietro e un piccolo casotto di quelli che servivano per le reti”. Il buen retiro ideale in cui il Maestro potrà rifugiarsi quando ne avrà voglia. Federico è autenticamente, intimamente commosso: la sua città lo stringe in un inequivocabile amoroso abbraccio: ecco, ora torna a casa tua. Appena scende la sera sulle facciate a vetri del grattacielo cittadino i raggi laser compongono in verticale la scritta luminosa a caratteri cubitali:

GRAZIE FEDERICO

E invece niente. Sarà colpa di un bieco sortilegio, sarà un’infelice combinazione astrale, ma la favola sbaglia finale. Mentre nei mesi che seguono alla festa Giulietta Masina prende in pugno l’aspetto pratico della faccenda e si incontra a ripetizione con il giovane architetto per decidere ogni minimo particolare della ristrutturazione della casa, la vicenda volge al peggio. Arpesella con il suo amico faccendiere della IFL si infila in una serie di speculazioni finanziarie disastrose, e al momento di formalizzare la donazione davanti a Fellini e al notaio Pelliccioni, non possiede il denaro per concludere. Né, da gentiluomo orgoglioso, accetta l’ipotesi di una cordata di cittadini facoltosi che si offrono di coprire l’ammontare. Il rogito non ha luogo.

Giorgio Franchini spiega per filo e per segno il garbuglio giuridico con tanto di formule in latino: quelli sì che erano architetti diplomati al liceo classico capaci di trasformare persino un atto notarile in una pagina dell’Iliade! Il sindaco Conti non ha la forza per tirare le fila di un recupero in extremis dell’impresa, e l’edificio di carte crolla miseramente a terra. Marco Arpesella, sopraffatto dai debiti, non regge al disonore.

“Ma a morire non furono solo i sogni. Ci spezzò il cuore quel colpo di pistola che risuonò secco in una sera d’autunno in un grande albergo vuoto e sinistro, nella notte del 1° ottobre del 1987”

Così l’ispirato autore del racconto conclude la vicenda, ma non ancora il libro, arricchito di prove documentali, pagine di fotografie, assonometrie e progetti in pianta. E financo di un disegno struggente della facciata della casa, tutto colorato, frutto del concorso di idee Una casa per Federico, riservato agli alunni delle prime classi elementari.

Un’immagine che più aderente non potrebbe essere alle parole pronunciate un giorno da Fellini, in macchina, al giovane architetto Franchini:

«Mi piacerebbe una casa, una facciata come quella che disegnano i bambini».

Un desiderio che Rimini, il suo amato “borgo”, non è mai stato capace di tradurre in realtà.


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