Schuman non abita più qui 

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Non se la passa certo bene, questa povera Europa, a settantacinque anni dalla conclusione definitiva della Seconda guerra mondiale. Stretta nella morsa fra la tragedia del Coronavirus e l’inadeguatezza, diremmo ormai palese, della sua classe dirigente, rischia davvero di andare in frantumi. Prendiamo, ad esempio, la BCE targata Lagarde che ha già avuto modo di far rimpiangere, in più di un’occasione, la saggia guida di Draghi, rivelando di essere più una tecnocrate di discreto livello che una figura in grado di prendere per mano un continente ridotto in ginocchio dalla pandemia ma già prima gravato da una crisi che si protrae ormai da oltre un decennio.
Un’Unione Europea, quella che abbiamo sotto gli occhi, che non ha nulla a che spartire col coraggio dei padri del dopoguerra. Nulla a che spartire con l’intelligenza visionaria di De Gasperi, Schuman e Adenauer, i quali si caricarono sulle spalle una comunità che andava ben al di la dei propri confini, ben comprendendo quanto il sogno di un’Europa unita fosse indispensabile per scongiurare nuovi conflitti.

Settant’anni fa il francese Schuman poneva le basi, con una celebre dichiarazione, per l’istituzione della CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, dando vita a un percorso che il 25 marzo 1957 avrebbe portato alla firma dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957 (la nascita della CEE, Comunità Economica Europea).
L’obiettivo di quella classe dirigente era giungere all’Unione politica attraverso una serie di intese sempre più strette, progredendo senza sosta verso l’abbattimento di tutte le barriere, gli ostacoli e i muri. Di quello spirito, ahinoi, non è rimasto più nulla, nemmeno le speranze che avevano animato gli anni Novanta, la prima fase del mondo post-Muro di Berlino, quando si credeva davvero di poter guardare al domani con un ottimismo che oggi ci appare del tutto fuori luogo.

Appartengo alla generazione cui era stato raccontato che il Duemila sarebbe stato il secolo della felicità, ricordo l’entusiasmo che regnava all’epoca intorno all’Europa, i nostri discorsi in classe alle elementari, l’album delle figurine dedicato agli allora quindici stati dell’Unione Europea. Ricordo che c’era davvero la radicata convinzione che tutto sarebbe stato migliore, che il futuro sarebbe stato all’insegna del benessere e della comunione d’intenti, che nulla sarebbe stato più come prima e che l’avere in tasca un’unica moneta ci avrebbe ulteriormente avvicinato, come singoli e come collettività. Di quello spirito, di quei giorni, di quella gioia di vivere e di intendere l’Europa non è rimasta nemmeno l’ombra, e il rischio è che la tragedia del Coronavirus e le titubanze con cui l’Unione attuale la sta affrontando in materia economica e sociale possano condurla alla catastrofe. Se dovesse prevalere la visione dei falchi della Corte tedesca di Karlsruhe, l’Europa non avrebbe più alcuna ragione di esistere. Un continente egoista, arrogante e disumano non è quello che i padri fondatori avevano immaginato, non c’entra nulla con il Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni e altro non è che il trionfo del liberismo selvaggio applicato a un’entità che dovrebbe, al contrario, basarsi su un socialismo liberale di stampo di keynesiano. Qualcosa si muove in tal senso, soprattutto in merito alla previsione di un MES senza condizionalità, ma bando ai facili entusiasmi perché la strada verso la modifica sostanziale del paradigma che ha dominato l’ultimo trentennio è ancora lunga.
O l’Europa ritrova la sua ispirazione originaria, tornando a essere la patria dei diritti, delle libertà e delle mani tese nei confronti dei più deboli, o non avrà un domani. Peccato che le conseguenze sarebbero devastanti per tutti, con il trionfo dei nazionalismi più estremi e dei sovranismi più violenti e autoritari che si ricordino dal dopoguerra a oggi. Un giorno, qualora dovesse accadere, la storia inchioderà i rigoristi da strapazzo ai loro crimini: saranno ricordati come coloro che hanno distrutto un progetto meraviglioso per inseguire dogmi e tabù del tutto privi di senso. L’auspicio è di non vedere mai questo film.

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