Eccidio della Città del Grappa. Non dimentichiamolo

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Vittime, carnefici, spettatori. Diciassette anni. In guerra si cresce in fretta. Si cresce per essere impiccato a un albero. Si cresce per stringere il cappio al collo di un coetaneo. Si cresce guardando la morte esibita come potere, forza, sopraffazione.  Era di martedì. Tina Anselmi non lo scorderà mai più il 26 settembre 1944. I suoi 17 anni li aveva compiuti da qualche mese, studentessa all’istituto magistrale “Sacro Cuore” di Bassano. Un giorno come tanti, pensava. Certo un giorno di guerra.  Ma quella mattina il fronte, la prima linea, sfondò in classe. Per una passeggiata fuori programma. Un ordine. A impartirlo i nazifascisti che scortarono lei e le sue compagne per poco più di un chilometro fino a giungere in viale XX Settembre. E i suoi occhi furono costretti a guardare quei cadaveri appesi ai rami dei lecci piantati per abbellire il suggestivo boulevard d’ingresso alla città, che affaccia sulla “conca d’oro” chiusa dal Brenta e aperta sull’omonima valle. Fra loro ragazzi della sua età,

Giovanni Battista Romeo e Cesare Longo di Pove, i più giovani “martiri” dell’Eccidio della Città del Grappa. Strangolati con un cavo telefonico legato dalle mani anche di coetanei con la divisa delle “Brigate nere”. Vittime, carnefici, spettatori. Esistenze sconvolte per sempre: spezzate, avvelenate, scosse. Fissate da un’immagine consegnata alla storia, in bianco e nero nella quale la macabra spersonalizzazione causata dalla perdita di nitidezza fa sembrare manichini senza espressione, senza umanità, i cadaveri sospesi a pochi centimetri da terra con il cartello “Bandito”.  Per chi nasce e cresce nel bassanese, quello scatto è il simbolo della Resistenza. O meglio il sangue della Resistenza. L’episodio più cruento della lotta partigiana e della repressione nazifascista, al culmine dell’”Operazione Piave” e del rastrellamento sul Grappa. L’episodio simbolo del 25 Aprile, Festa della Liberazione.

Per Tina quello scatto fu un’epifania in presa diretta: crudele, dolorosa, rivoluzionaria. Un colpo al cuore. L’istante esatto di una scelta di campo definitiva: «Capì allora che per cambiare il mondo, bisognava esserci». E cominciò a pedalare. Staffetta partigiana con il nome di Gabriella. Documenti, armi, ricetrasmittenti. In sella alla sua bici. Anche più di cento chilometri al giorno. All’alba per poter arrivare puntuale a scuola. Nel dicembre del 1944 si iscrisse alla Dc. Prese il diploma e anche la laurea. Da partigiana diventò sindacalista, ad appena 18 anni, per poi intraprendere la strada della politica: coerente con la scelta quotidiana del “da che parte stai?”, dalla parte della democrazia, del camminare con gli altri, del vincere il proprio egoismo.

«Noi abbiamo combattuto per conquistare la pace. E la memoria è l’arma pacifica che ci permette di non ripetere gli errori che ci hanno portato al fascismo» spiegava quella che fu la prima ministra della Repubblica italiana. Aveva 39 anni quando entrò a far parte del III governo Andreotti, con il dicastero del Lavoro e della Previdenza. Ne aveva 41 quando le venne dato lo stesso incarico alla Sanità; 54 quando le fu affidata la presidenza della Commissione parlamentate d’inchiesta sulla loggia massonica P2, che condusse con rigore e determinazione. Perché non c’è libertà senza verità. Senza dignità. Senza tutele. Senza uguaglianza. Senza inclusione.

A lei si devono leggi che hanno segnato e segnano il progresso civile del nostro Paese: la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, la riforma che ha istituito il Servizio sanitario nazionale – fondamentale nel contrasto odierno al coronavirus – con la globalità delle prestazioni e l’universalità dei destinatari.

Tina vagante, la chiamavano. Custode della Costituzione: «Non è solo una carta scritta una volta per tutte – ripeteva – ma indica un traguardo che tutti i cittadini devono impegnarsi a raggiungere». Così come ammoniva, non solo le donne: «State attente, fate la guardia perché come abbiamo vinto ci possiamo scontrare con chi queste conquiste le vuole cancellare: non ci sono conquiste definitive. Ognuno deve metterci la sua parte».

Essere partigiani.


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