“Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana” di Marco Omizzolo (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019)

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24.8miliardi di euro: a tanto ammonta il giro d’affari complessivo delle agromafie secondo le recenti stime riportate nel sesto rapporto dell’istituto Eurispes. Un giro d’affari che in Italia passa attraverso 80 distretti agricoli che presentano condizioni di lavoro, di alloggio e sanitarie in costante violazione dei diritti umani. Nei quali le eccezioni sono ben poche.

In Europa sono circa 880mila i lavoratori costretti a varie forme di subordinazione e ricatto.

In Italia il 62% dei lavoratori stagionali dell’agricoltura, perlopiù migranti, non ha accesso ai servizi essenziali, il 64% di loro non ha accesso all’acqua corrente e il 72% presenta, dopo le attività di raccolta, malattie di cui prima non soffriva.

Un mondo tutt’altro che marginale. Il settore agroalimentare italiano, con le sue 1.2milioni di unità lavorative annue (ISTAT, 2017) e circa 1.6milioni di imprese (ICE, 2017), “costituisce l’architrave del sistema industriale italiano”.

Ed è proprio in questo universo che Marco Omizzolo si è addentrato, quasi per caso, e vi è rimasto per oltre un decennio. Dapprima come osservatore esterno, poi come studioso, per arrivare finanche a esserne parte attiva allorquando ha realizzato che l’unico vero modo per comprendere la vita e le dinamiche dei braccianti agricoli era diventare uno di loro.

I risultati della sua lunga e poderosa indagine sul campo sono stati raccolti in un testo, pubblicato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli a novembre 2019, dal titolo molto esplicativo Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana. Un libro nel quale l’autore racconta storie di migranti mentre racconta se stesso. Ne viene fuori lo spaccato di un intero Paese alle prese con l’atavico dualismo tra ciò che è giusto e ciò che è conveniente, tra giustizia e opportunismo, tra furbizia e inganno, tra etica e malvagità.

Sui migranti si è sentito e letto di tutto. Accusati di rubare anche il lavoro. Si è preferito lasciare intendere che fossero o siano loro la causa della disoccupazione, della precarietà e dei bassi salari. Concorrenza “sporca”. Ma è davvero colpa loro? I problemi scaturiscono davvero dalla nazionalità dei lavoratori?

Marco Omizzolo si sofferma a lungo su questo aspetto sottolineando che non è certo una questione di nazionalità ma di politiche: “non si tratta di lasciar affogare i migranti per vivere meglio. Le agromafie italiane sono il risultato del nostro imbarbarimento e di decenni di politiche neoliberiste”. Chi oggi vuole dividere gli italiani dagli stranieri, “elevando lo slogan «Prima gli italiani» al rango di legge costituzionale”, non ha capito o fa finta di non capire che i nati italiani sono già tra gli ultimi, “vivono già in condizioni di povertà, sfruttamento, emarginazione sociale”.

Una condizione che potrebbe essere considerata di vera e propria miseria, economica certo ma soprattutto culturale, intellettuale, spirituale.

L’ambizione a rincorrere una crescita, arida, che sia solo economica, consumistica, a raggiungere un ben-essere che ruota intorno a meri beni materiali ha portato, per certo, a un imbarbarimento generale sfruttato, anche dalla politica, per far accettare ogni privazione o cambiamento in negativo in nome di una lotta per la sopravvivenza che, in realtà, non è stata o diventata nient’altro che una lotta tra poveri.

Lo sfruttamento sistemico dei lavoratori e delle lavoratrici di qualsiasi nazionalità è l’espressione di un sistema dominante che ambisce a condizionare la democrazia”.

Ha ragione l’autore quando afferma che il problema non sono gli immigrati ma i padroni, i quali sfruttano i braccianti indipendentemente dal colore della loro pelle o dalla nazionalità. Che non sono i migranti a rubare il lavoro bensì il padrone che ruba loro salari e diritti. E con il termine padrone va inteso sia il soggetto singolo datore di lavoro sia il soggetto astratto da intendersi come sistema.

Bisogna essere consapevoli, per Omizzolo, che le agromafie sono un sistema sociale caratterizzato da livelli diversi di relazioni di potere che rischia di imporsi in via definitiva in tutto l’Occidente. Un sistema non d’eccezione, ma ordinario, che vede “la collaborazione di pezzi deviati dello Stato, di una parte del sistema imprenditoriale e di numerosi clan mafiosi, in alcuni casi anche stranieri”, in stretta connessione con la parte più feroce del capitalismo. Un sistema che non si esaurisce con la questione lavorativa, ma si allarga alle sfere dell’ambiente, dei diritti umani, della salute e, “più in generale, della natura specifica del progresso democratico”.

Marco Omizzolo sottolinea come spesso anche solo il linguaggio comunemente impiegato lasci trasparire insensibilità, leggerezza o, peggio ancora, condivisione di idee e pregiudizi. Anche nell’informazione viene usato con disinvoltura il termine schiavo. Si continua a non comprendere che, in questo modo, ovvero adottando “il linguaggio del padrone”, se ne legittima la figura e il potere, e con esso l’intero sistema. Bisogna invece sottolineare, sostiene con fermezza l’autore, che non sono schiavi bensì persone ridotte in schiavitù. Persone.

Capo, padrone, schiavo: indicano forme di dominio e subordinazione che devono essere superate in favore di termini più adeguati come datore di lavoro, lavoratore, lavoratrice.

 «Ascoltare molti uomini, braccianti indiani, che per oltre dieci anni hanno usato la parola “padrone”, usare la parola “datore di lavoro”, sapere che ne conoscono il significato, fornisce una delle ragioni più alte e stimolanti per continuare la lotta contro ogni forma di sfruttamento e sopraffazione.»

Le lotte portare avanti in questi anni dai braccianti agricoli migranti in varie parti d’Italia, condivise da Marco Omizzolo e da altri come lui, rappresentano per l’autore una potenziale possibile e realizzabile svolta per tutti i lavoratori e le lavoratrici sfruttati. Costituiscono il segno di un Paese che non vuole più essere razzista, retrogrado, violento e mafioso. Può essere o considerato marginale ma è un Paese che esiste.

Omizzolo descrive, narra e racconta passo dopo passo la sua personale ricerca/esperienza e man mano che il lettore vi si addentra ne risulta essere sempre più coinvolto. Come se, leggendo il libro, compisse anch’egli un graduale percorso, di ricerca e analisi, anche introspettiva, inerente gli accadimenti, gli eventi, le emozioni narrate.

Indagini come quella condotta da Marco Omizzolo aiutano a ripristinare il senso, a volte smarrito, di umanità delle persone verso gli altri, a superare i limiti dell’indifferenza e a riflettere sul senso e il valore che nell’odierna come forse anche nella passata società viene attribuito alle cose e alle persone.

Una lettura che nasconde la sua forza e potenza proprio nell’essere così profondamente destabilizzante.


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