La Libia raccontata dai libici in un reportage a fumetti. Intervista al fumettista Gianluca Costantini

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C’è una Libia che nessuno ha mai raccontato. Una Libia diversa da quella mediamente narrata dai media e discussa sui social. E’ la Libia delle «madri ferme alla finestra in attesa dei figli che non torneranno», della «gente comune che subisce ogni giorno ricatti dei militari, abusi e rapimenti». La graphic novel «Libia» (Mondadori, 2019) di Francesca Mannocchi e Gianluca Costantini raccoglie le testimonianze dirette dei libici, tra abusi che tornano in auge, drammatiche prese di coscienza, e rimpianti talvolta paradossali di una guerra senza fine. Un’opera che unisce l’arte del fumettista e attivista Gianluca Costantini (La Lettura – Corriere della Sera, Internazionale) ai reportage sul campo della giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi. Costantini è noto per il suo talento grafico al servizio di importanti cause umanitarie, collaborando, tra gli altri, con ActionAid, Amnesty, Cesvi, ARCI ed Emergency.

Censurato dal governo di Erdogan, pubblica le sue storie su importanti testate italiane, francesi, statunitensi e turche. I suoi disegni hanno accompagnato prestigiose manifestazioni come l’HRW Film Festival di Londra, il FIFDH Human Rights Festival di Ginevra, il Festival dei Diritti Umani di Milano e il Festival Internazionale a Ferrara. Numerosi i premi per la sua opera artistica e umanitaria, tra cui il premio Arte e diritti umani di Amnesty International. Francesca Mannocchi è una giornalista d’inchiesta che ha lavorato in Libia, Iraq, Tunisia, Libano, Siria, Egitto, dedicandosi soprattutto alle questioni dei migranti e alle zone di guerra. Ha scritto per importanti testate come «L’Espresso», «Al Jazeera», «Middle East Eye», «Stern», e diretto documentari per Rai3, La7, Sky News. Nell’intervista che segue, il fumettista romagnolo svela preziosi dettagli del libro relativi alle testimonianze libiche raccolte dalla Mannocchi e in seguito interpretate dalla sua matita, passando per la questione migranti, il dramma delle donne libiche ed eritree, fino all’incarcerazione di Patrick Zaky che in questi giorni tiene sulle spine il nostro paese, e non solo.

«Libia», un reportage a fumetti sulla guerra. Quando è nata l’idea di unire la sua arte al reportage giornalistico di Francesca Mannocchi?
Seguivo i reportage che Francesca realizzava per La7, mi piaceva la semplicità con cui parlava e si muoveva nei filmati. Volevo realizzare un libro che riuscisse a raccontare e visualizzare nella maniera più semplice possibile la Libia. Un libro con il quale i lettori potessero comprendere l’aggrovigliato gomitolo che è la vita e il conflitto nel paese che si trova a poca distanza dalle coste siciliane. L’ho contatta e lei ha accettato di collaborare con me e realizzare per la prima volta un libro a fumetti sulle sue parole. Abbiamo iniziato a scegliere, dalle tante interviste che aveva fatto nei suoi viaggi, quelle più importanti. Le persone avrebbero fatto da collante per realizzare il ritratto del paese e così è stato. Siamo anche stati aiutati per la sceneggiatura da Daniele Brolli che ha unito le nostre competenze. La difficoltà maggiore è stata quella di raccogliere più informazioni iconografiche possibili essendo molto poche, la Libia è un paese molto poco raccontato, non ci sono film, musica, fotografia sulla vita comune delle persone. Ma per creare una storia a fumetti c’è bisogno proprio di creare un mondo in cui le persone possono muoversi e agire. Avevo bisogno di un set teatrale in cui far muovere Francesca, per fare questo sono partito disegnando le mappe e poi cercando di capire come era sviluppata la città di Tripoli e poi successivamente tutto quello che c’è intorno. La ricerca è stata talmente dettagliata che alla fine ì risultato un disegno estremamente accurato, pieno di dettagli, sia nelle architetture che nelle persone. Alla fine questo, per me, è un libro di facce di tutta l’Africa. Io purtroppo non sono potuto andare in Libia e quindi ho dovuto lavorare alla Salgari sulle informazioni che mi venivano date da altri.

«Colui che per i giornali è uno scafista, il nemico numero uno, l’origine del traffico di uomini, in Libia nelle carceri legali e in quelle illegali, in qualsiasi centro di detenzione, di un qualsiasi tratto di costa della Libia occidentale, è solo un disgraziato a cui sono stati affidati una bussola, un gps e un satellitare». E’ uno dei passaggi più emblematici dell’opera. Secondo lei in Italia dal punto di vista mediatico siamo davvero messi così male? E quali sarebbero a suo avviso le principali ragioni di questa foschia mediatica?
Non credo che il problema sia solo italiano, esiste una contro informazione sui migranti un po’ in tutta Europa, lo scafista è stato spesso usato come il nemico pubblico numero uno, colui che come un pirata traghettava i migranti da una parte all’altra del Mediterraneo. Saranno anche esistiti degli scafisti di questo tipo ma ora che i migranti non arrivano più con i barconi alla costa opposta ma vengono intercettati molto prima gli scafisti non esistono più. Lo scafista è solo uno dei tanti a cui viene affidato un gps e un satellitare, uno a cui hanno insegnato a guidare un un gommone. Ora non si usano più i barconi ma dei vecchi gommoni che devono avere la possibilità di far meno strada possibile, tanto poi, forse, verranno intercettati dalla guardia costiera libica oppure dalle Ong, quello che conta per il trafficante è che partano e che prima abbiano pagato. Il trafficante esiste ed è la persona più potente nell’economia della migrazione.

Nel libro, c’è soprattutto la Libia delle «madri ferme alla finestra in attesa dei figli che non torneranno», della «gente comune che subisce ogni giorno ricatti dei militari, abusi e rapimenti». Una situazione drammatica che continua ormai da un decenni, senza contare la dittatura di Gheddafi. Cos’ha pensato la prima volta che ha ascoltato i racconti della Mannocchi? Che reazione ha avuto? E come hanno preso forma le sue parole, i suoi “personaggi”?
All’inizio non mi sarei mai aspettato che i protagonisti sarebbero diventati i cittadini comuni, ma un po’ alla volta si sono semplicemente impadroniti della scena. Soprattutto le donne sono le principali protagoniste di queste storie: dalle migranti eritree alle donne che per decenni continuano ad aspettare il ritorno dei loro parenti, il più delle volte morti. Queste sono persone molto semplici. Questa è una Libia di madri ferme alla finestra in attesa di figlie che non torneranno. I racconti di Francesca lasciano senza parole, poi immergendomi in quel mondo, tramite video, foto e racconti ti accorgi che è tutto vero e capisci quanto noi siamo fortunati.

Se dovesse scegliere un disegno per presentare il libro a un bambino italiano, quale sceglierebbe? E perché?
Credo che gli farei vedere le donne eritree che camminano nel deserto, una pagina del capitolo “Wered, la Libia come trappola”, e poi gli farei vedere anche le foto vere di quel cammino. Il cammino di quelle che potrebbero essere le loro sorelle oppure madri che partono perché nel loro paese non c’è nulla per poter crescere i propri figli. I bambini devono capire che ci sono persone meno fortunate di loro e capire che bisogna aiutare gli altri. Per un bambino questo è un libro difficile, ma ho visto bambini sfogliarlo e guardarlo attentamente. Forse siamo noi che crediamo sempre che loro non siano pronti ad affrontare certi argomenti.

A quattro anni di distanza dalla morte di Giulio Regeni, torna lo spettro della repressione dittatoriale di Al Sisi. Patrick Zaky resta in carcere in Egitto e la situazione sembra di difficile soluzione. Cosa ne pensa di quello che sta accadendo? So che è molto coinvolto nella vicenda anche con Amnesty..
Ho semplicemente fatto un disegno su Patrick e l’ho messo in rete dicendo a tutti che lo potevano usare. Un ritratto avvolto dal filo spinato, per dare quella sensazione di fastidio e dolore che può essere quello di stare in prigione ma anche di essere continuamente torturati. La repressione della dittatura egiziana in verità continua ininterrotta, questa è più sentita qui da noi perché Patrick studiava in Italia, ma in Egitto le cose vanno male da parecchio tempo. Vengono arrestate persone di continuo, i numeri sono incredibili, speriamo solo che tutto questo lavoro fatto dagli attivisti e da Amnesty serva a proteggere un po’ Patrick. Quando un mio disegno diventa così utile mi sento completamente realizzato, quello che faccio serve a divulgare un messaggio di pace. I disegni attraversano i confini facilmente in quanto anche i confini sono un disegno disegnato su una mappa, non sono reali.

So che anche lei è stato vittima di “bavaglio”, nello specifico da parte del governo turco. Può raccontarci cosa è accaduto in quei giorni in Turchia e perché hanno deciso di processarla per direttissima e senza alcuna possibilità di difendersi?
Il 15 luglio 2016 c’è stato un fallito colpo di stato in Turchia, il 22 luglio ho pubblicato un ritratto di Recep Tayyp Erdogan (http://channeldraw.blogspot.com/2016/07/the-blood-of-recep-tayyip-erdogan.html) e il giorno dopo sono stato avvisato da attivisti turchi che il mie siti web e blog non si potevano più vedere in Turchia, anche Twitter mi avvisò che aveva avuto una richiesta di chiusura del profilo da parte del Governo turco. Il 28 luglio un altro attivista mi inviò gli atti di un processo (https://medium.com/channel-draw/the-turkish-court-order-that-bans-channeldraw-37-more-twitter-and-youtube-accounts-1995e7dc40b4) dove venivo accusato insieme ad altri 37 profili di terrorismo, incoraggiamento della violenza e la criminalità, minaccia dell’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale. Nella lista degli indirizzi c’è sia il mio profilo twitter che il link al blog con il ritratto di Erdogan. Ma in verità questa censura viene da tutta la mia attività passata, nel 2013 avevo appoggiato la rivolta di Gezi Park e avevo seguito l’attacco dell’esercito turco alla città curda di Cizre (https://medium.com/channel-draw/the-resistance-of-the-kurdish-people-1d7b103178bd). Tutto è stato fatto in automatico dalle autorità senza che io fossi mai veramente contattato, anche perché io sono italiano non turco, tutto ciò è alquanto surreale.

Ha prestato la propria arte fumettistica come commentatore artistico per la CNN durante i mondiali di calcio in Russia. Com’è andata?
Sì, ho seguito vari eventi sportivi per CNN, le Olimpiadi invernali in Korea del Sud, i Mondiali di Russia e (https://edition.cnn.com/2018/06/14/football/gallery/russia-2018-world-cup-illustrated/index.htm) e molti altri. Per circa un anno ho lavorato per loro, mi piaceva molto raccontare questi eventi, mondi che conosco poco ma molto affascinanti, soprattutto le Olimpiadi invernali sono state moto interessanti. Realizzai anche un bellissimo lavoro dove venivano raccontati i migliori 11 momenti della satira dei Mondiali di calcio (https://edition.cnn.com/2018/06/07/football/world-cup-top-11-moments-spt/index.html). Poi tutto è finito per causa della destra americana che mi ha accusato di antisemitismo per una mia vignetta su Israele del 2014, ma è già stato raccontato nei dettagli proprio qui su Articolo 21: (https://www.articolo21.org/2019/07/accusato-di-essere-antisemita-dalla-bestia-di-steve-bannon-intervista-a-gianluca-costantini-graphic-journalist/).

Il reportage a fumetti è un formato ancora poco diffuso in Italia. Quale secondo lei il suo potenziale futuro?
Non direi che è poco usato, ci sono stati molti quotidiani e settimanali che lo hanno usato e anche nel web ci sono molti esempi. Naturalmente è un linguaggio specifico non facile da usare e soprattutto sono pochi gli autori a fumetti che riescono ad adattarsi ai ritmi di queste testate. Il suo futuro è proprio quello di diventare un nuovo elemento di racconto, credibile ma allo stesso tempo artistico. Una visione giornalistica di un artista.


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