Cronaca di una morte annunciata

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Il 18 gennaio è morta una persona, Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano di 38 anni: è accaduto nel CPR di Gradisca e ci sono buoni motivi per ritenere che sia stato ammazzato e ci sia in corso un depistaggio. Proviamo a capire cos’è successo, cercando innanzitutto di inquadrare il contesto in cui ciò è avvenuto: un luogo di detenzione-contenzione che affonda le proprie radici nel secolo scorso,  sottoposto a totale militarizzazione e dove regna l’abuso di psicofarmaci e l’autolesionismo.


Origine dei CPR

I precursori di quelli che oggi conosciamo come Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) vengono istituiti nel 1998 (Legge 40/1998, la cosiddetta Turco-Napolitano) con finalità chiaramente politiche. L’articolo 12, denominato Esecuzione dell’espulsione, stabilisce infatti con il primo comma che quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione […] il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del ministro dell’Interno. Dunque detenzione in attesa dell’espulsione.

Si pensa spesso che nel CPR finiscano persone che si sono macchiate di crimini terribili, pluripregiudicati, stupratori seriali: così non è. Ci sono sì uomini con problemi penali rilevanti alle spalle – che comunque hanno già scontato la pena – ma è sufficiente possedere un permesso di soggiorno scaduto per essere rinchiusi in questi luoghi che si rivelano ben peggiori delle carceri. Più della metà dei trattenuti non ha mai fatto male ad una mosca.

 

La Commissione De Mistura

Nel 2006 l’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato decise di affidare ad una commissione ad hoc l’incarico di realizzare un’indagine sulle condizioni di sicurezza e sulla vivibilità di tutte le strutture destinate al trattenimento temporaneo ed all’assistenza degli immigrati irregolari. Il 31 gennaio 2007 la Commissione, detta Commissione De Mistura, presenta un Rapporto realizzato sulla base delle visite in 14 Centri di Permanenza Temporanea ed Assistenza (CPTA), 4 Centri di Identificazione (CID) e 4 Centri di Accoglienza (CPA): in risposta all’approccio prevalentemente repressivo e punitivo viene proposto lo svuotamento graduale dai CPTA delle persone per cui non c’è necessità di trattenimento, il superamento dei CID in favore di un sistema unico di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, il rafforzamento dei CPA per l’accoglienza ed il soccorso, prevedendo comunque una permanenza il più limitata possibile per la definizione delle posizioni giuridiche individuali, attraverso un potenziamento di personale per l’informazione capillare e l’orientamento individuale delle persone accolte.

 

I CPR oggi

Con la Legge 46/2017, meglio conosciuta come Decreto Minniti-Orlando, che contiene Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale, viene anche estesa la rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari, con un allargamento dei centri per il rimpatrio: gli allora Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) prendono il nome di Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) e si passa da 4 a 20 centri, uno in ogni regione.

Le modalità del trattenimento all’interno di queste strutture sono regolate dall’articolo 21 dal DPR n. 394 del 31 agosto 1999: si risolve tutto in poco più di una paginetta che stabilisce a grandi linee la garanzia della libertà di colloquio all’interno del centro e con visitatori provenienti dall’esterno e la libertà di corrispondenza, anche telefonica. Il campo è così lasciato totalmente deregolamentato, senza una reale struttura normativa, senza definire in maniera chiara dove finisce il diritto della persona e inizia l’arbitrio dell’amministrazione.

È prevedibilmente scoppiata la violenza all’interno di tutti i centri e la risposta è stata altrettanto violenta; non esiste – perché non è prevista da alcuna norma – un’autorità di controllo.

 

Gradisca d’Isonzo

La struttura di Gradisca viene identificata come uno dei centri polifunzionali presenti in Italia, ovvero luogo che comprende sia strutture di prima accoglienza e di protezione dei richiedenti asilo che strutture destinate all’esecuzione dell’espulsione. Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), che ha fatto parte della Commissione De Mistura istituita da Amato, ricorda che il centro di Gradisca lo ha sempre molto colpito per l’incredibile architettura che presenta, che oggi è priva di spazi che non siano le celle e le zone antistanti le celle. Schiavone sottolinea che a Gradisca gli spazi comuni e di socializzazione (la mensa, la sala televisione, il campo di calcetto) non sono stati chiusi per motivi di ordine pubblico – come si vuole far credere – ma semplicemente non sono mai stati aperti, per accordo comune della Prefettura con l’ente gestore (la cooperativa Edeco di Padova, nota perché aveva in gestione il CPA di Cona, dove il 2 gennaio 2017 morì Sandrine Bakayoko, donna ivoriana di 25 anni): hanno deciso fin dall’inizio che sarebbe stato pericoloso.

Le persone vengono dunque gettate in un contenitore indifferenziato in cui può avvenire qualunque cosa, lontano dagli occhi di tutti: l’accesso alla struttura è illegittimamente negato a televisione, giornalisti, associazioni, rappresentanti istituzionali (ad eccezione dei parlamentari).

Da questo quadro si evince chiaramente che non è possibile una diversa gestione e la situazione è insostenibile sotto tutti i profili. È necessaria l’immediata chiusura.

La vicenda di Gradisca è particolare perché si tratta di una ri-apertura: nel 2013, dopo anni di grandi tensioni, culminati con la tragica morte di Majid El Kondra tra l’11 e il 12 agosto, il CIE viene infatti chiuso per la situazione intollerabile che vi è all’interno, per poi riaprire il 17 dicembre 2019 sotto il nome di CPR. Vengono immediatamente trasferite persone provenienti dai CPR di Bari (in buona parte distrutto a seguito di una rivolta che risale ad aprile 2019) e Torino (dove all’inizio dell’anno sono stati appiccati una serie di incendi).

 

La morte di Vakhtang

È in questo contesto che si apprende sabato 18 gennaio 2020 della morte di una persona all’interno del CPR di Gradisca, Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano di 38 anni trattenuto nel centro dalla metà di dicembre. Il gruppo No CPR e no frontiere Fvg – che è riuscito a comunicare con alcuni reclusi – ha subito denunciato l’accaduto e affermato che Vakhtang è stato ammazzato di botte dalle forze dell’ordine all’interno del CPR, negando che la morte fosse da attribuire ad una rissa scoppiata tra le persone trattenute, come sostenuto da molti organi di stampa.

Mercoledì 22 gennaio Riccardo Magi, deputato di +Europa e già segretario nazionale dei Radicali, e Gianfranco Schiavone raccontano nel corso di una conferenza stampa alla Camera di due visite ispettive compiute presso il CPR di Gradisca d’Isonzo nelle giornate di domenica 19 e lunedì 20 gennaio, motivate proprio dal decesso, in circostanze del tutto da chiarire, di Vakhtang Enukidze.

Magi e Schiavone riportano di essere arrivati nel CPR intorno alle 22.30, dove sono stati accolti da un soprintendente di polizia in assetto antisommossa, con casco in testa e manganello in mano, e di aver potuto visitare la zona verde del centro, quella dove si trovava il cittadino georgiano prima di essere arrestato. Raccontano di una grossa tensione palpabile all’interno e della presenza incombente degli agenti che hanno guidato la loro visita.

Magi racconta di aver appreso che quella sera stessa erano stati sequestrati tutti i telefoni cellulari degli ospiti della zona verde e di aver potuto raccogliere delle testimonianze – di reclusi ma anche di un’operatrice dell’ente gestore e di un poliziotto – su quanto accaduto il 14 gennaio, tutti unanimi nel negare che ci fosse stata una rissa e concordi nel riportare che si era trattato invece di una colluttazione fra Vakhtang ed un giovane nordafricano nel cortile con le sbarre antistanti le stanze, con il primo che ha avuto la meglio. Tutti gli ospiti hanno riferito poi di un intervento molto pesante delle forze di polizia, sostenendo che dieci agenti sono intervenuti per immobilizzare il cittadino georgiano, colpirlo ripetutamente dietro la nuca e sulla schiena ed infine trascinarlo via come un cane tirandolo per i piedi.

Durante la seconda visita avvenuta nella tarda mattinata di lunedì 20 – effettuata solo da Magi perché a Schiavone è stato negato l’accesso – altri trattenuti, appartenenti questa volta alla zona rossa, hanno confermato la ricostruzione rispetto all’intervento delle forze di polizia contro Vakhtang, episodio che avevano potuto vedere direttamente dalla finestra sul retro della loro stanza. Hanno inoltre aggiunto il racconto di quanto accaduto nel pomeriggio del 16 gennaio, quando il cittadino georgiano – da quel che sappiamo – è stato riportato al CPR dopo un giorno di carcere a Gorizia, ma collocato nella zona rossa: versava in condizioni molto critiche, non riusciva a stare in posizione eretta e, nonostante le richieste di aiuto, ha vissuto un’ultima notte di agonia fino a quando, praticamente in uno stato di incoscienza, venne portato via con l’autoambulanza. È morto di lì a poche ore.

Magi riporta inoltre un’altra indicazione, riferita ovviamente anche a chi sta seguendo le indagini all’interno della Procura di Gorizia: nella notte tra lunedì e martedì due cittadini egiziani, che avevano entrambi raccontato ciò che avevano visto, sono stati espulsi, così come è stato rimpatriata un’altra persona presente nel momento in cui sarebbe avvenuto il pestaggio e che aveva rilasciato una ricostruzione assolutamente convergente con quelle degli altri ospiti.

 

Ricostruire quanto accaduto

Schiavone sottolinea la presenza di tre fondamentali elementi da valutare per ricostruire correttamente i fatti: le testimonianza dei trattenuti, il risultato dell’autopsia (rinviata per permettere alla famiglia di nominare un perito di parte) e le registrazioni video: sono infatti presenti circa 200 telecamere dentro la struttura, che coprono al centimetro tutti gli spazi tranne gli interni delle stanze (per motivi di privacy) e i locali riservati alla polizia.

Schiavone si sofferma soprattutto sull’importanza dell’ascolto dei trattenuti: sono tutti espellendi, cioè persone lì per essere espulse, e c’è il rischio di ritrovarsi in uno scenario di eliminazione dei testimoni. Le deposizioni devono inoltre essere raccolte secondo modalità precise, in locali esterni e con interpreti che non sono quelli del centro, al fine di renderle veramente libere.

Dovrà infine essere accertata la condizione di salute di Vakhtang, sia al momento dell’ingresso nel carcere sia quando ha fatto ritorno al CPR, e le responsabilità dell’infermeria, la cui apertura è prevista anche in orario notturno.

È necessaria una rigorosa ricostruzione dei fatti per poter escludere con certezza che non si tratta di un nuovo caso Cucchi e che non ci sia in corso un imponente depistaggio.


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