Andrea Camilleri: “Di mare o di scoglio?”

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In anteprima, inviatoci da Angelo Pizzuto, pubblichiamo il suo contributo ad un volume commemorativo che le città di Porto Empedocle ed Agrigento dedicheranno alla memoria dello scrittore da poco scomparso.

Più in alto andrai, gloria o non gloria, più ti si vedrà il culo (A.Camilleri, parafrasando Michel de Montaigne)
Il torto peggiore che si possa fare ai siciliani, come ad ogni popolo ed etnia, è tesserne le lodi di una diversità esclusiva, indulgentemente (auto)assolutoria… (anonimo.)
La Sicilia è un Continente? Si, ma alla deriva. Non montarsi mai la testa. (anonimo)

di Angelo Pizzuto

E’ stato magnanimo e ‘paciunziusu’ (nella lingua a noi comune), anche nel lungo addio verso l’ignoto, Andrea Camilleri, che ha abbracciato  la sua “nera signora” per un lungo periodo di degenza e malattia. Dando a chi lo volesse tutto il tempo per “ripensarlo”, e a se stesso -come ci piace    immaginare- ogni preambolo di acclimatamento, confidenzialità, fascinoso corteggiamento (da gentiluomo vigatese) rispetto alla Nera Signora.

Vigata, appunto: il suo mare cristallino e abissale, la veranda a Punta Secca del Commissario Montalbano, le sue nuotate a perdifiato come le pipe e i pernod di Maigret…Identità e località, come si ebbe a dedurre, del tutto aleatorie, impalpabili, fuori da ogni mappa geografica, per un lembo di Sicilia e di umani intrallazzi schiettamente inverosimili nel cuore della provincia più “addormentata” dell’isola. Ma “immaginati” e “immaginabili” come la Macondo di Garcia Marquez, la Alphaville di Godard o- con un guizzo di fantasy – l’arzigogolata toponomastica di Tolkien fra le Terre di mezzo e quelle di Mordor (nella cosmogonia enciclopedica de “Il Signore degli anelli”)

Alla faccia di cromosomi, antenati, eredità genetiche, essere siciliani (toscani, lombardi, partenopei, sardi, pugliesi….) non è una prerogativa, una nota di merito, blasone o bosone (Dio ce ne scanzi!) elevabile a categoria dello spirito. Ma nemmeno una condanna biblica, arabo.normanna o geopolitica…Di ciò, Camilleri credo fosse consapevole ed amava glissarci, giocarci sopra, come ben traspare dalla sua loquacità di “cuntastorie” (“perché di cantare non se ne parlo: stonato dalla nascita”- celiava).

La sua commedia umana, di conseguenza,  era buffa, formicolante, eroicomica, ilarogrottesca: in una fantasmagoria di pupazzi boriosi e meccanici, “masculi” visionari e ‘tragiudiaturi’, mentalmente sospesi fra il Matto e    l’onirico non delirante, anzi ben amministrati, e non escludendo mitigate influenze da Federico Fellini, da “quella” Rimini e Romagna “soltanto sue”, sin dalle desolate scorribande de “I vitelloni”. Da quelle  maschere fuori orbita e fuori (ogni) serie, comuni ad entrambi. Quasi spiacente, io, di pensarlo e scriverlo, lontano da quei “paradisi” infantili: da siciliano apolide, ribelle e fugace, rispetto ai culti, paesaggi, fascinazioni della (per me) indecifrabile, inqualificabile isola nativa. Refrattario al culto, blandizie, riverenze ed ataviche empietà che ad essa vengono immolate. Forse seguace involontario della ormai sperduta lezione di Giuseppe Antonio Borgese, nato a Polizzi Generosa, antifascista della prima ora, naturalizzato statunitense (dove visse da profugo- insegnante), e defunto, da viandante della vita, dalle parti di Fiesole.

Tornando a Camilleri.. Siculi o Sicani? Questo fu ed è il problema. Coesistendo entrambe le nature in uno stesso indigeno. Bufalino, Cattafi, Vittorini, Quasimodo- ma anche Consolo e Bonaviri (per vie traverse): magnifici, laboriosi, compiuti eredi di una visionarietà barocca, con interferenze elleniche dalla Magna Grecia, di una   ‘morte addosso’  lasciva e dannante, come Lola-Lola, in “Diceria dell’untore” di Bufalino, “Paolo il caldo” di Brancati, “Un bellissimo novembre” di Patti.

Difficile da spiegare? Lo so, ma è tutto   un affare interno a quel “maledetto sentimento” di alterità, di “maggior” vicinanza agli Dei e all’Assoluto Naturale che affligge, come per competizione- sicani e siculi- da est a ovest, a est più che a ovest. Poiché, verso oriente, verso val di Catania, oltre al complesso di superiorità, emerge quello del ‘maggior talento’ (di più, tanto di più di ‘quei tre’  che, bontà sua, concede il Vangelo), dell’ingordigia materica, fescennina, ludico-lussuriosa, con quel fondale (presagio, desiderio) di morte che si ritempra (a parole) nell’abilità per gli affari, per i commerci, per le vagheggiate e vanagloriose imprese di cui è maestro (di nuovo) Brancati quando descrive la costruzione “della Grande, incommensurabile Torre” nei suoi iperbolici “Anni perduti”:  non solo appresso alle fandonie fasciste, ma anche a quelle di autoctona iniziativa

A occidente, invece -e di ciò Camilleri è stato esempio metodico, non dissuadibile- dai plessi girgentini e palermitani, sino al trapanese (basti l’esempio di di Tomasi di Lampedusa e del cugino Lucio Piccolo), la “saggezza del ‘vero’uomo” impedisce di crogiolarsi nei miti stucchevoli del machismo ‘gallista’, dell’ ingravidatore ‘di balconi’, distinguendosi non di rado uomini casti sino al romitaggio, spontaneamente ed orgogliosamente monogami, devoti (“lodevolmente devoti”) a colei che fu l’unica Dulcinea della loro vita, tanto che, non a caso, persino Totò Riina rinfacciava a Tommaso Buscetta la pudibonda vedovanza del nonno dai cinquan’anni in poi, senza mai “aver accolto altra fimmina nta la so casa”.

Affrancandosi sia dal bisturi illuminista (e scibile inquisitorio), contro ogni mafia e omertà, di Leonardo Sciascia, sia dai rovelli ed angosce della tortuosa borghesia pirandelliana (accreditandosi però della più esaustiva, freudiana, non filologica- artisticamente arbitraria- biografia dell’Agrigentino mai concepita), Andrea Camilleri è stato, e rimane, uno scrittore a se stante: più zelante, ortodosso, disciplinato in ambito ‘esecutivo’ (regista, insegnante, funzionario Rai), più autocrate, beffardo, senza cavezza in quello letterario: sia che inventasse a raffica ‘gialli claudicanti’ da offrire al suo Montalbano (quindi alla Sellerio e alla Siae), sia che si cimentasse nelle più brumose, evanescenti supermarionette del “Birraio di Preston”, de “La concessione del telefono”, del “Re di Girgenti”.

Il nostro preferito? L’unicum e struggentemente poetico, visionario di “Maruzza Musumeci” (da cui il magnifico monologo di Pietro Montandon), storia di un contadino analfabeta che impara ad amare, rispettare e serbare sino alla fine la Donna-Sirena di cui s’è innamorato. Più coraggioso e meno scettico del Tomasi di Lampedusa che preferisce “consegnare” al suo destino la scontrosa e mitica Lighea, femmina in sembianze di pesce (afro)paradisiaco, che non potrà mai essere né sua, né di questa infima terra.

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Ps. Per gli amanti del “genere” cult e  mitografico, segnaliamo, ad abundantiam,  lo sfizioso  libro-intervista di Marcello Sorgi, La testa ci fa dire. Dialogo con Andrea Camilleri, edito da  Sellerio nel 2000

Ad un certo punto l’interlocutore si trasforma in gustoso antropologo:


«Io penso che uno si accorge di essere siciliano o comunque siciliano in un certo modo quando esce dalla Sicilia. Mi ricordo una definizione […] che diceva che i siciliani si dividono in due grandi categorie: di scoglio e di mare aperto.

Di scoglio sono quelli che se si allontanano dalla Sicilia, il secondo giorno cominciano ad avere delle crisi di astinenza, gli mancano tutta una serie di cose […] e il terzo giorno devono assolutamente tornare.

Di mare aperto sono quelli che fanno della loro sicilitudine una specie di patrimonio personale e lo utilizzano per vivere una vita diversa. In Sicilia ci tornano perché sta loro nel cuore, ma comunque scelgono di proiettarsi su un altro orizzonte».  Da auto-esiliato nella città-frastuono dei Papi e dei Cesari,  mai postomi il problema, anzi risoltolo alla radice.


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