La reticenza dei captive media sui Benetton

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La tragedia di Genova e il dibattito che ne è seguito sulle privatizzazioni hanno riproposto in modo crudo il tema della subalternità dei grandi gruppi editoriali. Captive media, per usare il gergo.

Con tutto il rispetto, ovviamente, per giornalisti e tecnici che vi lavorano, le principali testate sono intrecciate a settori merceologici diversi, nonché tessere di mosaici proprietari in cui l’indipendenza è sempre a rischio. Di qui, la timidezza a scrivere il cognome Benetton, azionista di riferimento della società Autostrade tramite il fondo Atlantia. E di qui pure una certa disponibilità a prendere per buone le linee difensive sull’eventualità di revoca o decadenza della concessione. La pubblicità è l’anima del commercio, diceva un vecchio motto. Guai a perdere un investitore “pesante” come la famiglia trevigiana, con i suoi maglioni colorati, i messaggi “provocatori”, e i caselli costosi. Deciderà la magistratura genovese, cui dovrebbero essere messi a disposizione mezzi straordinari, qualità e gradazioni delle colpe. Tuttavia, risulta evidente che tanta negligenza vi è stata, e da numerose parti. I media –soprattutto quelli stampati, essendo le inserzioni televisive in questo caso relativamente inferiori- non sono stati davvero liberi, dipendendo i loro ricavi molto dalla pubblicità. Le vendite in edicola, com’è noto, sono in calo da tempo.

La vicenda del ponte Morandi è solo la punta dell’iceberg. Sull’intero capitolo delle privatizzazioni il potere mediatico, con eccezioni virtuose, ha svolto un ruolo spesso debole se non complice dei gruppi dirigenti politici e imprenditoriali (pressoché tutti, se c’è l’inferno serve un soppalco) che negli “splendidi” anni novanta si ubriacarono di liberismo. Era la stagione di un centrosinistra “blairiano”, ammaliato dal superamento dello statalismo. A favore di un privato, ecco il caso italiano, fatto di poche famiglie protese al proprio “particolare” e prive di visione strategica. Il caso delle telecomunicazioni è persino clamoroso. L’ex Stet-Sip fu buttata sul mercato, rigettando la proposta alternativa alla privatizzazione tout court, vale a dire la liberalizzazione dei servizi accompagnata dal mantenimento della rete in mano pubblica, senza che del dibattito si desse quasi notizia. Il mainstream era altro: meno stato, più mercato. Naturalmente, le compromissioni tra editoria e protagonisti della vita economico-finanziaria erano forti, tali da impedire il pieno svolgimento della funzione di “contropotere”. La Rai filo-governativa, Mediaset berlusconiana e stampa proprietaria hanno accompagnato le scelte incaute pure di quel periodo. Ora si versano lacrime di coccodrillo e ci si interroga, ad esempio, sul perché l’autorità dei trasporti fu costituita alcuni anni dopo l’avvenuta vendita di Autostrade. E sul perché venne tolta dalle funzioni della stessa autorità la competenza sul controllo delle concessioni. Ma se si riguardano le cronache dell’epoca non si rintracciano soverchie grida di dolore.

Ci sono soluzioni facili? No, purtroppo. Non è immaginabile vietare la pubblicità, decretando la fine di testate e la perdita di posti di lavoro. Ma proprio le narrazioni antiche e presenti, con le loro lacune e con le manipolazioni, sollevano ancora una volta il coperchio di una pentola che ribolle da anni: la definizione di uno “statuto dell’impresa editoriale”, che preservi autonomia e specificità dell’informazione. Ecco, sottosegretario con delega Crimi, un bel compito autunnale: non meno importante della revisione degli atti concessori.


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