Balcani e libertà dei media. Tra cambiamento, fragilità e contraddizioni

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Da ormai tre anni Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBCT) studia i sistemi mediatici della regione attraverso una rete di mediapartner che coinvolge 12 paesi. Un affresco complesso e contraddittorio, quantomai bisognoso delle attenzioni dei suoi vicini

Clientelismo, censura, politicizzazione, mancanza di indipendenza, di trasparenza e di risorse economiche. Sono solo alcuni dei problemi che condividono i sistemi mediatici dei paesi dei Balcani occidentali: una “regione di mezzo” che a un quarto di secolo dalla caduta del muro si presenta ancora sospesa tra Est e Ovest, alternando paesi già membri a candidati all’Unione europea.

OBCTranseuropa studia da sempre questo trascurato angolo d’Europa; ma negli ultimi anni, all’interno del cosorzio europeo ECPMF (European Centre for Press and Media Freedom) lo ha fatto approfondendo i temi della libertà di stampa e della libertà di espressione: priorità  condivise da tutte le giovani democrazie in caotica transizione dal comunismo e vere e proprie sfide transnazionali, poiché fatte salve le diversità storiche e linguistiche, le problematiche della regione e le nuove tecnologie continuano a sfumare i confini politici tra i  paesi dell’area.

E’ dunque lecito chiedersi che anno sia stato il 2017 per la libertà di stampa nei Balcani Occidentali e più in generale nel Sud-est Europa. Quali progressi, quali arretramenti, quale bilancio e quale futuro? E’ difficile rispondere a queste domande senza cedere al pessimismo e all’ottimismo che tipicamente inficiano l’analisi di “oggetti” in transizione. Quello che sappiamo è che negli ultimi tre anni la rete dei mediapartner curata da OBCT (14 testate da 12 paesi del Sud-est Europa)  ha inviato alla nostra redazione più di 500 articoli relativi a tematiche mediafreedom: un mosaico di notizie ed analisi in cui segnali di miglioramento – legati anzitutto allo sviluppo di una embrionale società civile – si alternano a difficoltà endemiche che sembrano non trovare soluzione.

Quando si parla di libertà di stampa il primato negativo spetta senza dubbio alla Turchia di Erdoğan, dove a partire dal tentato golpe dell’estate 2016 il governo ha posto in essere una serie di misure che hanno sensibilmente ristretto la libertà d’espressione. A farne le spese sono stati anzitutto i giornalisti indipendenti o d’opposizione, diversamente accusati di aver sostenuto la presunta rete golpista di Fethullah Gülen e spesso incarcerati con l’accusa di complicità in attività terroristiche (secondo l’European Federation of Journalis sarebbero 160 i giornalisti turchi attualmente in prigione; nelle cronache europee il caso più noto è quello del quotidiano “Cumhuriyet” e del suo direttore esule Can Dündar, cui OBCT ha dedicato questo dossier).

Quand’anche non baciati dai riflettori italiani, altri paesi meno “sospettabili” presentano però criticità endemiche. Pensiamo, tra i membri Ue, alla Grecia, dove secondo l’ultimo report del Center for Media Pluralism and Media Freedom il pluralismo mediatico sarebbe gravemente minacciato dagli effetti collaterali della crisi economica; o ancor di più alla Bulgaria guidata dal controverso primo ministro Boyko Borizov, un paese che dal primo gennaio detiene la presidenza semestrale dell’Ue ma che Reporter Without Borders colloca al 109esimo posto, ultimo tra gli europei in materia di libertà di stampa. La Bulgaria che nel corso del 2017 è emersa dalle colonne della testata indipendente “Mediapool” – partner di OBCT – è in effetti un luogo ostile, in cui i giornalisti lavorano sotto la costante pressione della politica e del governo, un’ingerenza che non di rado sfocia nella minaccia e nell’attacco fisico – “Se continui a fare domande scomode sarai licenziato”, è la candida risposta che lo scorso ottobre un giornalista dell’emittente nazionale “Nova TV” ha incassato in diretta dal vice del partito di governo GERB Anton Todorov e dal vice primo ministro Valeri Simeonov.

L’autocensura affligge anche l’informazione della Romania, che al pari della Bulgaria è membra Ue dal 2007. Se, nel complesso, le condizioni e la performance dei giornalisti rumeni sembrano essere in via di miglioramento, il giornalismo investigativo è ancora un miraggio e buona parte dei giornalisti ammette di sacrificare la propria deontologia professionale all’esigenza di conservare il posto di lavoro. In una recente intervista, il noto giornalista Cătălin Prisacariu, attivista del Romanian Investigative Journalism Center, ha dichiarato che ogni volta che ha lasciato un giornale o un’emittente televisiva lo ha fatto per “motivi politici ed economici”: “Di diversa entità, ma di mezzo c’era sempre la censura. Il problema è che quando hai quasi vent’anni spesi nel sistema mediatico nazionale e lasci ogni posto per queste ragioni, ti rendi conto in quale tipo di istituzioni stampa hai accettato di lavorare…”.

Se nemmeno il sistema mediatico della Croazia – ultimo membro Ue – si dimostra immune dai germi del populismo, del nazionalismo e della “tabloidizzazione”, al di là della frontiera esterna dell’Unione si agitano le giovani democrazie dei paesi candidati (Macedonia, Montenegro Serbia,  Albania) e dei “candidati potenziali” (Bosnia Erzegovina e Kosovo). Qui lo scenario mediatico appare ancora più fragile, ma in un certo senso più fluido e variegato – va ricordato che nei paesi in fase d’accesso la Commissione europea esercita un potere negoziale che paradossalmente viene meno nel momento in cui il candidato diviene stato membro.

Un esempio significativo delle dinamiche interne a un paese in fase di accesso è offerto dalla Macedonia, che nell’anno appena trascorso ha conosciuto uno storico avvicendamento politico. Se è un fatto che la fine dell’era Gruevski, l’indizione di elezioni anticipate e la formazione del governo socialista di Zoran Zaev sia stata diretta conseguenza delle “bombe mediatiche” lanciate da due whistleblower un tempo funzionari dei servizi segreti governativi, ciò non deve indurre a pensare che la libertà di espressione sia un obiettivo centrato, come ben si evince da questa intervista rilasciata da Mirjana Lazarova Trajkovska, giudice macedone in seno alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Altrettanto problematica risulta poi la situazione della Bosnia Erzegovina – si veda in proposito l’intervista rilasciata da Aladin Abdagic, caporedattore del Centro investigativo di Sarajevo (CIN), lucciola nel buio mediatico di un paese infragilito dalle questioni etniche e dall’incapacità di ricostruire una memoria condivisa sugli anni Novanta – e del vicino Montenegro, cui nel corso dell’anno OBCT ha dedicato questo nutrito approfondimento.

Infine, Serbia e Albania: paesi diversi per storia e profilo economico, ma una coppia che per quanto rimanga simbolicamente litigiosa sul Kosovo racconta meglio di altre il cortocircuito tra media e politica che caratterizza la regione. Come chiaramente emerso nel corso dei Western Balkan Media Days – un evento organizzato dalla Commissione europea e quest’anno svoltosi a Tirana – sebbene presso le cancellerie europee Edi Rama e Aleksandar Vučić si contendano da tempo il titolo di “leader dell’europeismo in terra balcanica”, all’interno dei rispettivi paesi i giornalisti non sono liberi di lavorare. Stando a quanto riferiscono le organizzazioni giornalistiche serbe e le principali associazioni di categoria europee, il Presidente Vučić utilizza  i mezzi che ha a disposizione per screditare, limitare e talvolta distruggere finanziariamente quei media che semplicemente riportano o commentano eventi rilevanti per il paese con i crismi della professionalità. Una linea che di recente anche il leader albanese sembra ricalcare, nello stesso momento in cui, al pari di Vučić, rivende la propria immagine estera – ottenuta grazie alle cortesie, non si sa quanto consapevoli, dei media stranieri – alle sempre più assuefatte opinioni pubbliche interne.

Dopotutto, nell’era di internet, i media, le opinioni pubbliche e dunque anche  le responsabilità deontologiche degli attori dell’informazione assumono una dimensione transnazionale: proprio per questo, prima di dipingere Rama come un genio dell’arte prestato alla politica e Vučić come l’europeista che ha arginato il nazionalismo serbo, i media esteri dovrebbero quantomeno porsi il problema di conoscere più da vicino i paesi che nominano. E’ forse questo il miglior auspicio che come giornalisti italiani possiamo affidare al 2018: se nel nuovo anno i nostri colleghi balcanici non saranno lasciati soli a raccontare le complessità e le difficoltà dei paesi in cui vivono, senza nemmeno accorgercene anche noi avremo dato un piccolo contributo allo sviluppo della libertà dei media nel Sud-est europeo.


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