(73/ma Mostra del Cinema Venezia) Ozon va alla guerra

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Il raffinato kammerspiel di Ozon inizia nel 1919 in una piccola città della Germania. L’orgoglio tedesco, ferito dalla sconfitta bellica, inacidisce in rancore, in ostilità sprezzante nei confronti di chi si è permesso di infrangere il progetto di estendere l’Heimat oltre i confini della Nazione annientando l’identità altrui (tentativo che verrà ancor più drammaticamente ripetuto venti anni dopo secondo i criteri assertivi suggeriti dal sintagma “blut und boden”). Questo sentimento si rivolge in particolare alla Francia; non sorprende quindi che l’intera cittadinanza accolga con scherno aggressivo il giovane reduce francese apparso improvvisamente nel villaggio.

Adrien è arrivato per rendere omaggio alla tomba di Frantz, caduto in guerra, e proprio nel cimitero incontra Anna, la fidanzata di Frantz, che vive con gli anziani genitori del ragazzo. Invitato a casa dei genitori del soldato defunto, riesce a vincere, procedendo con educata, dolente cautela, la diffidenza che i tre gli oppongono. Racconta loro con delicatezza e rimpianto l’amicizia con il giovane tedesco, afferma di averlo conosciuto a Parigi, prima della guerra, e frequentato a lungo e intensamente. Le storie che tesse intorno a questo sodalizio fanno tornare i tre alla vita e al sorriso. La morsa che serrava i loro cuori in un inverno senza fine si allenta.

Adrien non viene visto più come il “nemico”, lo straniero, l’estraneo, bensì come un giovane malinconico dai modi garbati, segnato dal loro medesimo lutto, nelle cui parole rivive il figlio. Solo dopo molti giorni Adrien troverà il coraggio di confessare la verità ad Anna: è stato lui a uccidere Frantz nel corso di una battaglia, non lo aveva mai visto prima di quel momento. Se lo è semplicemente trovato di fronte e, con dolore, ha sparato per primo per paura di morire. In quell’istante tuttavia la sua anima è stata trafitta dall’ultimo sguardo di Frantz, colmo di una pena illimitata. Pena per quel suo sconosciuto coetaneo francese costretto a ucciderlo per salvarsi. Quello sguardo e un rimorso senza fine hanno condotto Adrien in Germania per chiedere perdono ai familiari di quel soldato così simile a lui.

Molto lontano per temi e stile dalle provocazioni che gli sono proprie, Ozon firma un’opera elegante e sincera, essenziale e pudica, dove il gioco di alternare il colore (la speranza che rinasce) al bianco e nero (la sofferenza che diventando consuetudine annienta la vita) risulta misurato e perfettamente riuscito. Un film che si pone fra i migliori della Mostra.

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Non si può dire lo stesso dell’altro film francese “Une vie”, adattamento purtroppo fallito del romanzo di Maupassant. Il regista Stéphane Brizé riesce a distruggere la vivida carnalità del testo originario mutandolo in un esangue melodramma (mal fotografato e pessimamente recitato), portato avanti a fatica con cesure narrative e andirivieni nel tempo che a volte rendono incomprensibili eventi, moventi e psicologie. Ciò che più sconcerta sono i dialoghi, involontariamente surreali e capaci di asfissiare ogni azione (si fa per dire) avviluppandola in una sorta di “fluido mortale” fatto di appiccicose minuzie quotidiane, interminabili moniti notarili, banalissime dissertazioni sui colori degli abiti, lettere filiali traboccanti di cupidigia e ipocrisia, prolungati scontri ideologici riguardanti la supremazia della minestra sul brodo.

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Appena meno insensato ci è parso “Brimstone” di Martin Koolhoven. Nel primo “capitolo” (Apocalisse) si pensa al solito horror con velleità autorali ambientato in una comunità ultracristiana insediatasi nel West del primo ‘800: un sacerdote/demone dai sermoni implacabili (forse un esemplare cattivissimo di undead) che perseguita Liz, una ragazza senza lingua (scopriremo in seguito il perché, se mai ci interessasse), cercando di additarla al disprezzo dei fedeli come strega. Nei ritagli di tempo le brucia la casa, fa morire il bambino di una partoriente che la graziosa fanciulla sta assistendo, squarta il marito e, mi pare ovvio, la induce alla fuga insieme ai figli.

Nel secondo invece (Esodo) si scopre, non senza qualche difficoltà, che la narrazione procede a ritroso nel tempo. Così ritroviamo Liz adolescente (una Dakota Fanning costantemente attonita) esanime in uno dei tanti deserti americani. Per sua sfortuna viene soccorsa da una famiglia cinese assai avida che pensa bene di venderla al proprietario di un bordello per minatori. In questo locale si scatena la verve registica di Koolhoven, che riesce a toccare vertici di cattivo gusto tali da suscitare anche una certa ilarità. Sul terzo capitolo (Genesi) si può anche omettere qualsiasi commento.

“Frantz” regia di Francois Ozon, con Pierre Niney, Paula Beer –in concorso

luciatempestini0@gmail.com


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