Turchia: Europa sotto scacco

0 0

Un colpo di stato, anche se fallisce, è un’azione violenta, improvvisa e imprevista. Ma il presidente Erdogan è riuscito a reagire con rapidità sorprendente, epurando scuole, moschee, università, oltre che, ovviamente l’esercito, e arrestando più di 15.000 persone in pochi giorni. Non credo che la rapidità della reazione possa essere una prova del fatto che fosse un finto colpo di stato ordito dallo stesso Erdogan, ma certamente è un indicatore, direi inequivocabile, che quelle liste di proscrizione erano già nei cassetti del governo e che la deriva autoritaria era una scelta già imboccata da tempo. Dal movimento, che allora apparve come una grande spinta di innovazione, di Gezi Park sono passati poco più di tre anni e certamente lo stato di diritto da allora ha subito un profondo deterioramento. Gli arresti di giornalisti e le epurazioni nelle redazioni sono forse la punta di diamante del disegno autoritario, mentre, ancora una volta, le prime vittime del restringimento dello stato di diritto sono le donne.

L’annientamento della democrazia operato da Erdogan, quindi, non è una scelta improvvisata e motivata dalla reazione al colpo di stato, è una scelta strategica che viene da lontano e che sta portando la Turchia alla deriva di una nuova dittatura. Non è il primo caso di un dittatore eletto democraticamente: l’Europa del Novecento ne sa qualcosa!!

D’altra parte tutto ciò non ci deve far pensare che i fautori del colpo di stato rappresentassero la voce democratica che si ribella. La storia della Turchia ed il ruolo che in essa ha giocato recentemente l’esercito vanno in tutt’altra direzione. Lo stato di guerra permanente contro il popolo curdo ed i conflitti in Siria ed Iraq non hanno certo favorito i tentativi di ridimensionare il ruolo politico del secondo esercito della NATO, in uno stato che vuole giocare fino in fondo, ed anche con grande spregiudicatezza , il ruolo di potenza regionale in Medio Oriente.

Di fronte agli evidenti segnali di deterioramento della democrazia e dei diritti civili l’Europa si è dimostrata incapace di reagire. Non è riuscita, bloccata dai soliti veti incrociati, a portare avanti i negoziati per l’adesione della Turchia alla UE, formalmente aperti dal 2005, ma di fatto in stato di stallo, che pure avrebbero potuto rappresentare un ancoraggio per la difesa del regime democratico in Turchia, per la soluzione di Cipro e per la fine della guerra ai curdi. Ed ancora potrebbero rappresentarlo come forse sta a significare, al di là del tono arrogante utilizzato dal ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, la richiesta pressante di esentare  i cittadini turchi dal visto per entrare nell’Unione europea entro il prossimo mese di ottobre.

Ed oggi, il salto di qualità nel processo di annientamento della democrazia in Turchia sta avvenendo nel silenzio assordante delle democrazie europee. La minaccia di reintrodurre la pena di morte è solo la punta dell’iceberg ed insieme potrebbe essere l’ennesima mossa tattica per dare all’Europa il contentino per accettare tutte le altre misure liberticide e la stabilizzazione dell’attuale stato di emergenza. Ma perchè l’Europa è così debole nei confronti della Turchia e non è andata al di là delle condanne di rito?  Oggi ci sono due questioni che pesano come un macigno sui negoziati e su cui Erdogan tiene il coltello dalla parte del manico: i flussi dei migranti e l’approvvigionamento energetico. Su tutte e due le questioni la Turchia ha il potere di mettere in difficoltà l’Unione Europea.

Nella politica di governance dei migranti l’Unione Europea, pressata dalla spinta dei diversi populismi, non riesce a svolgere una sua politica fondata sulla consapevolezza che non si tratta di gestire un’emergenza ma di attrezzare le strategie per un cambiamento che è ormai strutturale e che riguarderà i prossimi anni. Viene alla mente, a questo proposito, quanto sosteneva Robert Schuman, agli albori del Mercato Comune Europeo, che vedeva “lo sviluppo del continente africano” tra i compiti essenziali dell’Europa: “L’Eurafrica – diceva Schuman – non consiste solo in un sistema di assistenza, ma nella creazione di un’unione economica, di una vera e propria associazione”.  Depurata dall’imprinting post coloniale, quella prospettiva, di pensare ad un continente euroafricano, sarebbe davvero la svolta storica, che potrebbe rovesciare le paure dei populismi in nuova speranza e aprire spazi per le democrazie e lo sviluppo locale. Oggi l’Europa si deve accontentare della coerenza della Merkel e della buona volontà (e della capacità) dell’Italia di intervenire per i primi soccorsi. Per il resto nulla sta cambiando. E gli stessi atti di terrorismo, che hanno giustamente gettato nel panico il vecchio continente, ma che con i migranti che arrivano sui barconi nulla hanno a che fare, rinforzano l’afasia europea e danno fiato alle paure alimentate dal populismo demagogico. E se Erdogan può aprire e chiudere i rubinetti del flusso da oriente, il gioco è fatto e l’Europa democratica finisce sotto scacco, incapace di una qualsiasi controffensiva (culturale, etica e politica) contro i populismi, può solo  monetizzare la paura  (3 mld subito e altri 3 fino al 2018) e sottostare al ricatto di Erdogan.

Analoga la situazione in campo energetico. Qui quello che pesa come un macigno è la dipendenza dell’Europa dalla Russia, da cui dipendono, nell’Unione a 28, il 33,5 % delle importazioni di petrolio greggio ed il 39,3% di gas naturale (dati 2013). L’Europa DEVE diversificare i suoi approvvigionamenti ed in questo la Turchia svolge un ruolo essenziale nel garantire il “corridoio meridionale del gas”. Cancellato il South Stream, che avrebbe mantenuto il monopolio russo, si cerca di stabilizzare l’accesso alle riserve del Mar Caspio e dell’Azerbaijan, prima con il Nabucco (accantonato per i costi) poi con il TAP (Trans Adriatic Pipeline), che dalla Turchia dovrebbe portare il gas in Italia attraverso la Grecia. La scelta di Erdogan degli ultimi anni è di fare della Turchia un hub energetico per garantire l’Europa. Ed oggi tra gasdotti esistenti, in costruzione, progettati se ne contano 8 sul territorio turco. Il recente sdoganamento dell’Iran promette ulteriori sviluppi.  La Turchia è sempre più uno snodo fondamentale per l’autonomia energetica del vecchio continente.

La stessa guerra in Siria ha tra le sue cause scatenanti la volontà da una parte dei contendenti di ridimensionare la dipendenza europea dalla Russia e per gli altri di ridurre il potere petrolifero dei sunniti. Al centro della contesa lo sfruttamento di giacimenti offshore in Siria, scoperti da imprese franco-britanniche nel 2011 e poi assicurate da Assad all’azienda russa Soyuz Neftegaz, ed il percorso di due metanodotti, l’un contro l’altro armato (è proprio il caso di dire), quello sciita che dovrebbe portare gas dall’Iran direttamente sulla costa siriana, bypassando la Turchia, e l’altro sunnita che dal Qatar avrebbe dovuto portare gas in Europa attraverso la Siria e la Turchia. Un intreccio già di per sè complicato, reso ancor più ingarbugliato dalla presenza e dal ruolo dell’IS, che grazie alla copertura della Turchia in questi anni ha potuto contrabbandare il greggio estratto dai giacimenti petroliferi iracheni, attraverso colonne (non invisibili) di centinaia di migliaia di autocisterne, verso i porti turchi del Mediterraneo e da qui all’Europa. Contrabbando che, stando ai dati forniti dalla Russia, nei primi sei anni di controllo del petrolio iracheno ha fruttato circa 2 mld di $ all’anno.

L’Europa, sempre più chiusa a riccio su se stessa , vittima della sua miopia, non riesce a contrapporre allo  stato d’emergenza e all’annientamento della democrazia di Erdogan, null’altro che proclami e petizioni di principio, nonostante l’indignazione di milioni di cittadini europei , che pensano sia possibile bloccare la deriva di Erdogan, usando intelligentemente i negoziati per la candidatura. È proprio nella mancanza di una politica lungimirante, che insegue i calcoli politici interni, che si base l’efficacia del ricatto di Erdogan, che si muove a suo agio nell’intreccio perverso tra guerre per l’egemonia regionale o per l’accaparramento delle risorse energetiche o per l’accesso alle risorse idriche, effetti devastanti dei cambiamenti climatici, che stanno rendendo inabitabili intere zone del continente africano e asiatico, e costante aumento delle disuguaglianze che non possono che far moltiplicare le condizioni di povertà e di fame. Ed è proprio questo intreccio a rappresentare la sfida che abbiamo davanti, rispetto a cui chiudersi a riccio, innalzare steccati o reticolati, non ha alcun senso.

La risposta a tutto ciò sta innanzitutto nell’accettare che questi aspetti sono indissolubilmente intrecciati, e che quindi hanno bisogno di una visione politica unitaria, che, investendo nella rapida e progressiva liberazione dalle fonti fossili, riduca le ragioni di conflitto armato, e che nella cooperazione per fornire tecnologie e processi produttivi in grado di combattere i cambiamenti climatici, anche attraverso l’implementazione delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica, sappia individuare i passi concreti per lo sviluppo locale nei paesi poveri e soprattutto in Africa. In una visione unitaria dello sviluppo che tenga insieme Europa, Africa e Medio Oriente. La Turchia è uno dei centri nevralgici della possibilità stessa di pensare ad uno sviluppo cooperativo, se l’Europa perde questa occasione paradossalmente perde anche la battaglia per costruire una sua identità europea (quella a cui hanno fatto riferimento i giovani che hanno votato no alla Brexit), che non potrà mai essere di chiusura nei propri confini, ma può solo rinforzarsi se fa del Mediterraneo il suo epicentro.

*Legambiente Onlus


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21