“Some girl(s)”, amori  e altre catastrofi

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La commedia di Neil LaBoute, per la regia di Marcello Cotugno, di scena al Piccolo Eliseo di Roma e al Politeama Rossetti di Trieste

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Con il titolo tratto da una  composizione  evergreen dei Rolling Stones (che  è anche colonna musicale dello spettacolo) transita dal Piccolo Eliseo (tappa romana di un’agile pièce a suo modo intensa, decantata, disincantata, in tour nazionale sino a primavera), la  commedia dell’americano Neil LaBoute che  ‘dichiara’ il suo ano di composizione (sarà una coincidenza?)  nello  stesso tempo in cui Wim Wenders dirigeva il  suo  più celebre film ‘americano’ (dopo “Paris Teaxas”), “Non bussate alla mia porta”, affidando allo stesso protagonista di un tempo  , lo struggente e granitico Sam Shepard (che di suo è ottimo drammaturgo e regista teatrale), il ruolo di un divo in declino, alla ricerca delle proprie radici di padre, figlio, compagno ‘latitante’ di una vita disseminata di pargoli e sregolatezza.

Con richiami al cinema epico e palesi citazioni dai dettagli di  pittura ‘provinciale’, solitaria di Edward Hopper, Wenders perveniva alla sua ennesima ellissi ‘on the road’ -donde affioravano i temi ricorrenti connessi all’assenza del ‘pater putativo’, alla solitudine dell’ ‘uomo forte’,  alla sconnessione del viaggio che è esplicita allegoria di ansimata deriva esistenziale.    Ignoriamo   se LaBoute sia stato a conoscenza dell’intensa, naufragante opera di Wenders: fatto sta che – proprio nel 2005- giunse sulle scene di Broadway, ricavandone un eccellente successo, il “Some girl(s) da cui è oggi espunto un allestimento snello, pragmatico, debitamente cinico, nostalgicamente ‘non romantico’ (non lo vuole, ma la tentazione di ‘cedervi’ si percepisce), da cui, nel 2013 pare sia stato tratto un film televisivo  (di  Daisy von Scherler Mayer) che ignoriamo del tutto  per la salutare ragione  di non essere  onnisciente.

Esiste qualche analogia tra i due titoli? Non tantissima, ma nemmeno da escludere, trattandosi –per “Some girl(s)”- di un viaggio a ritroso, da parte di un giovin\  scrittore a corto di ispirazione, di nome Guy, alla pedante, meticolosa ricerca delle ragazze un tempo amate in vari del distretti degli States. La cui dislocazione scorre, come mappa stradale, su uno  schermo luminoso che è fondale dello spettacolo, man mano che l’azione avanza e progredisce:  verso un finale di spicciolo utilitarismo, che poco ‘edifica’ della psicologia predatoria, confusionaria, pentita (con recrudescenze) dell’opportunista ‘tramp’ letterario.  Il quale, giunto alla vigilia di imprecisate nozze, sente il bisogno di rivisitare gli ‘amati beni’ di un tempo (migliore?), un po’ come Ugo Foscolo amava festeggiare, poeticamente, il suo 2 novembre: in un mix di eros e thanatos, di desiderio e rinuncia, di vestizioni e vestizioni che hanno per cornice (evidentemente ‘simbolica’) la medesima camera di motel, qualsiasi sia la città di   approdo  della nevrotica recherce

Accade però  che ciascuna   delle quattro donne che Guy incontrerà  sarà capace sia di spiazzarlo, sia renderlo  ancora più confuso (e disorientato) di quanto il giovinetto  non è già:  peraltro invaso da un minimo senso di colpa che ‘crudeltà’ e strafottenza del mercato editoriale provvederanno, anche da lontano, a neutralizzare, in vista di un memorandum di viaggio adattabile- tramite intromissioni degli  editor-  in probabile anticipazione di ‘sfumature di grigio e antracite’  vero bersaglio di ogni rivelazione, confidenza o frammento di vibrazione amorosa data in pasto al bestiario umano del (sarà mai?) best seller progettato a tavolino.

Ci si rende  conto che tale ricostruzione da ‘prateria dei sentimenti’ non rende (totalmente) giustizia ad un allestimento dotato in fondo di una sua discrezione  segreta, depurata, persino discreta   e civicamente educata (alle vibrazioni di un femminismo accomodante). Almeno per quanto attiene ad uno spettacolo di intelligente trattenimento con implicito invito- sia per uomini, sia per  donne- a ri.sondare (o fare esondare) quanto di puerile, vessatorio, sadomasochista può ancora sedimentarsi- e far male- nelle rimosse zolle del non detto, del non dicibile o dell’inconscio fastidioso. Alla cui riattivazione la impalpabile regia di Maurizio Cutugno provvede con metodo felpato e naturale ‘souplesse’ di rapporti un tempo sentimentali, oggi ingabbiati in una sorta di scatola di ‘montaggio e rimontaggio’,  ove la coazione a ripetere di Guy fa tutt’uno con l’eccessiva disponibilità delle ex parter a ‘rimestare’ su ciò che di bello o di brutto sono state spinte a rinunciare (considerato il ben celato narcisismo dello scrittore\gagabondo).

Si respira  la vecchia aria giovanilistico-melanconica dei vecchi film hollywoodiani, anni ottanta (da Nichols a Kasdan, da Mc Inerney a Charles Web) in questa messinscena il cui merito essenziale è non scimmiottare, né ‘italianizzare’ una tranche de vie che nasce, si dilata e si dissolve nel suo liquido amniotico- che americano era ed americano resta. Mentre la compagine, senz’altro  lodevole, degli interpreti italiani, lungi dal combaciare con il ‘calco’ della generazione “mille luci di New York” (o “Grande Canyon” o “Grande freddo”),  sceglie la più semplice ed efficace delle soluzioni espressive, connotative di un certo modo di essere -e stazionare- fra le promesse mai mantenute del ‘nuovo mondo libero ’.  Ovvero,   vivere per ‘lasciarsi vivere’, come già intuiva  il ‘giovane’ Philip Roth (“La ragazza di Tony”) e, prima di lui, quel temerario di Peter Fonda (“Easy Rider”) di cui si son quasi perse le tracce.

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“Some Girl(s)”  di Neil LaBute   con Martina Galletta, Laura Graziosi, Rachele Minelli, Bianca Nappi, Gabriele Russo, Roberta Spagnuolo  traduzione e adattamento Gianluca Ficca e Marcello Cotugno   scene Luigi Ferrigno   costumi Annapaola Brancia D’Apricena   regia Marcello Cotugno

 Teatro Piccolo Eliseo    Politeama Rossetti di Trieste  (e successiva tournée)


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