La fine dell’anno sui confini d’Europa dove si continua a morire e a sperare

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I trafficanti li riconosci subito perché in mano hanno dei lunghi bastoni e perché sono in costume anche se è inverno. Fanno salire sul gommone cinquanta, sessanta persone compresi i bambini e colpiscono con violenza chi non si sbriga a sistemarsi al posto assegnato, poi quando il motore è acceso si buttano in acqua e tornano a terra. Ringhiano qualcosa contro i giornalisti, ma non si preoccupano più di tanto. La vita del villaggio abbandonato di Cesme la regolano loro, non hanno nessuna paura della nostra telecamera.
“Arrivano all’improvviso e ci dicono che la barca è pronta. Mettono tutti in fila e scelgono uno del gruppo per spiegargli velocemente come funziona il motore, poi si parte e in quaranta minuti siamo in Europa.” Rashem parla un perfetto inglese perché lo insegnava in una scuola di Kabul. Per questo è scappato, i talebani lo hanno minacciato di morte. È contento perché il prossimo gommone è il suo. Samir invece è appena arrivato e dovrà aspettare. “Sono musicista, come mio padre. Siamo scappati insieme dopo che i talebani hanno minacciato di tagliarci la gola”. I taleban non amano i musicisti e neanche gli interpreti.
La punta della costa turca più vicina alla Grecia e all’Europa, brulica di uomini in fuga. Ognuno scappa dalla sua persecuzione, ognuno è costretto a nascondersi, a sottoporsi alla prepotenza dei trafficanti, a rischiare la vita per ottenere la protezione internazionale che l’Europa gli riconosce solo se riesce ad entrare di nascosto e a sopravvivere al viaggio. L’attesa della partenza la passano in un villaggio vacanze mai finito di costruire. Un insieme di villette che sembrano caverne. Un posto spettrale e pieno di fumo dei fuochi accesi ovunque, il freddo si fa sempre più feroce.

Il villaggio non è difficile da raggiungere, tutti sanno dov’è. Gli afghani e i siriani che hanno abbastanza soldi, ci arrivano in taxi direttamente da Istanbul. La tariffa la pagano direttamente ai trafficanti: duemila dollari con il taxi, milleseicento senza. Da Istanbul a Kios, l’isola greca che è appena a cinque chilometri di mare e che a guardarla da qui, sembra davvero vicinissima. Il flusso è diminuito ultimamente, ma sono ancora centinaia e i taxi si fermano in mezzo al nulla in una stazione improvvisata dedicata solo ai rifugiati e ai loro soldi. Ma la maggioranza, soldi non ne ha e viaggia a pedi. Camminano per giorni, i bambini in braccio, sulla schiena enormi zaini.

Da posti come questo sono passate oltre ottocentomila persone quest’anno. Altre duecentomila sono arrivate in italia dalla libia E quattromila sono i morti annegati nel Mediterraneo. Settecento bambini.

“È pericoloso, dice una ragazza che è appena arrivata. È pericoloso vivere in questo posto ed è pericoloso attraversare il mare. Ma quale altra possibilità abbiamo?”

Due bambini camminano mano nella mano tra la sporcizia e un mercatino improvvisato. Indossano il giubbotto salvagente. Altri bambini lanciano sassi contro le luci che si iniziano ad accendere a Kios mentre cala la sera. Queste sono le spiagge dove è stato trovato il corpo di Aylan Kurdi, annegato a 5 anni e di moltissimi altri bambini. L’anno 2015 si chiude con la speranza che quei sassi tengano buono il mare.

Retage è sriana, ha otto anni ed è la più piccola di cinque sorelle. Vive a Istanbul con la sua famiglia. Ci mostra i suoi disegni. “Questa sono io e questa è mia sorella”, dice mostrando due ritratti colorati. Poi tira fuori una barchetta di carta: “E questa è la nostra barca!” “È la barca che ci porterà in Europa” dice suo padre Waheed, sorridendo.
Sua madre Abeer racconta della fuga dalle bombe di Bashar Al Assad e dalla violenza di Daesh. E racconta di settembre quando migliaia di siriani erano andati al confine tra Turchia e Grecia per chiedere all’Europa di lasciarli passare in sicurezza, senza rischiare di annegare.
La risposta era stata violenta e determinata. I gendarmi turchi li hanno riportati ad Istanbul con la forza. Caricati su dei pullman e riportati indietro.

Waheed è un tecnico specializzato, ha lavorato per anni negli impianti petroliferi di tutto il mondo. Ha lavorato anche per l’Eni. “Qui non troviamo lavoro, i bambini non possono andare a scuola perché le scuole per i siriani sono a pagamento, non sappiamo come pagare le bollette che sono tre volte più alte di quelle che arrivano ai turchi. Qui non possiamo vivere.” Waheed e la sua famiglia vivono nel solo quartiere di Istanbul a rischio sismico dove le case vengono abbattute e ricostruite spesso e hanno prezzi altissimi per i siriani.
Non hanno soldi, e non possono andare via. In turchia vivono due milioni di rifugiati siriani, molti sono in queste condizioni.

“Via mare o via terra. L’importante è che andiamo insieme e se moriamo moriamo insieme”, dice Jasmine che vive in un seminterrato senza riscaldamento con i suoi tre figli, il marito è morto sotto le bombe a Homs. Il figlio grande che ha 15 anni e che voleva studiare musica, è l’unico che ha t ovato un lavoro. “Lavora in una sartoria fa doppio turno. Esce alle sette di mattina e rientra alle 9 di sera, racconta Jasmine. Guadagna ottocento lire turche (250 euro). Bastano solo per l’affitto.”

Negli accordi chiusi a novembre con l’Europa, la Turchia ha ottenuto la promessa di tre miliardi di euro per “aiutare i rifugiati e contenere il flusso”. Da quel momento la polizia turca ha iniziato ad arrestare chiunque cercasse di attraversare il confine. Almeno 4 mila arresti fino a pochi giorni fa. Molti li hanno rimandati indietro compresi siriani e afghani. Rimpatri illegittimi, contrari al diritto internazionale.
“Non so cosa farà la Turchia di tutti quei soldi, dice Jasmine. Io so solo che ci hanno accolti e di questo li ringrazio, ma non ci hanno mai aiutati. Ci sfruttano, paghiamo prezzi triplicati, i nostri bambini non possono andare a scuola.”

Izmir è un importante porto commerciale, la terza città della Turchia per numero di abitanti ed, insieme a Bodrum e Cannakkale, è il principale punto di partenza dei migranti diretti verso i Balcani. Arrivano continuamente siriani, afghani, iraniani per imbarcarsi verso la Grecia.
Un gruppo di siriani scende da un taxi proprio davanti a noi. “Arriviamo adesso da Damasco”, ci dice un ragazzo mentre tirano giù i bagagli e chiudono le giacche dei bambini. Un uomo ci interrompe e lo porta via assieme agli altri. Intorno tutti i negozi vendono giubbotti salvagente e pneumatici già gonfi. “Ora vendiamo solo 50 giubbotti al giorno, ci dice il commesso di un negozio di scarpe. Un mese fa ne vendevamo centinaia.” I giubbotti costano 150 lire turche, 50 al giorno significa 7500 lire, ovvero 2348 euro al giorno. Sulle strade percorse dai migranti si sviluppa una economia parallela che offre numeri importanti. Quella clandestina gestita dai trafficanti è molto più ricca. Mentre facciamo due conti i taxi caricano rifugiati. Donne uomini e bambini con i loro sacchi pieni del poco che sono riusciti a portare via prima di fuggire. Basta seguire quei taxi per arrivare a Cesme, nel villaggio abbandonato affacciato sulla Grecia, sull’Europa. “Il mio ultimo confine” dice sorridendo Hashem mentre aspetta di imbarcarsi. Non sa ancora che l’Europa ha alzato altri muri e che il suo viaggio sarà ancora lungo.


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