Dieci anni fa, Federico Aldrovandi . Se il capo della polizia, le persone delle istituzioni e della politica…

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Per come lo conosco, il capo della Polizia Alessandro Pansa è un galantuomo; della stessa scuola del suo predecessore, Antonio Manganelli. Da galantuomo sarebbe il gesto di ricevere, in queste ore, al Viminale, Lino e Patrizia Aldrovandi, i genitori di Federico. Ricordate la storia di Federico? Bisogna andare indietro nel tempo, al 25 settembre di dieci anni fa. Ma è meglio lasciare la parola al padre di Federico: “Il pensiero è sempre uno, quello di un’ingiustizia nei confronti di un ragazzino che non aveva fatto nulla di male, e che una mattina ha incontrato quattro elementi che alla fine lo hanno massacrato, provocandogli 54 lesioni, e spezzandogli il cuore, mentre lui gridava: ‘auto, basta’”.

Sono trascorsi ormai dieci anni, da quel 25 settembre del 2005, quando il figlio diciottenne di Patrizia e Lino Aldrovandi, tornando a casa a Ferrara si imbatte in un controllo di una pattuglia della polizia. Ha passato la notte con un gruppo di amici, rincasa; i quattro agenti di polizia, tre uomini e una donna lo fermano come avranno fatto chissà quante volte; come chissà quante altre volte accade, a Ferrara e ovunque.

Ma quell’alba del 25 settembre, a Ferrara, accade qualcosa che per fortuna non accade spesso, anche se una sola volta è troppo. Accade qualcosa di grave; lo si intuisce dalla condanna inflitta ai quattro agenti: eccesso colposo in omicidio colposo: tre anni e sei mesi di reclusione in parte coperti dall’indulto. Qualcosa di molto grave, perché Federico muore: “54 lesioni, spezzandogli il cuore mentre lui gridava: ‘aiuto, basta’…”. Ancora Lino Aldrovandi: “Le sentenze sono state molto dolci, le accetto perché bisogna, ma questa è una storia che no è andata fino in fondo, non credo sia stata fatta piena giustizia”.

Il Procuratore Generale della Cassazione, nella sua arringa definisce i quattro poliziotti “schegge impazzite”. Riflette Lino Androvandi: “Mi chiedo in quale posto di lavoro si continua a tenere una persona definita in questi termini. Io vesto la divisa e nel mio piccolo di credo, ho giurato fedeltà allo Stato e penso che chi ha tolto la vita vada cacciato fuori senza se e senza ma. Sono solo un cittadino, ma non sto zitto”.

Rileggiamo: “Sono solo un cittadino, ma non sto zitto”. In quelle otto parole c’è la straordinaria dignità di chi chiede giustizia e si sente tradito da chi questa giustizia la dovrebbe assicurare e, al contrario, non la garantisce. Un “tradimento” che brucia, ancora di più, se possibile, perché Lino Aldrovandi ha giurato fedeltà allo Stato, crede nelle sue istituzioni; lui stesso indossa una divisa, essendo ispettore della Polizia Municipale.

Il caso di Federico si collega a una più generale battaglia civile: quella per l’introduzione del reato di tortura. Il testo di legge dal 2013 viene palleggiato da una Camera all’altra.

“Mi auguro sempre che le persone che sono nelle istituzioni e nella politica abbiano un sobbalzo”, dice Lino Aldrovandi. “Introdurre il reato di tortura non significa fare una legge contro le forze dell’ordine. Ma guardando il caso di Federico e i molti altri casi simili che sono sotto gli occhi di tutti, non mi pare che la Polizia venga fuori in modo perfetto. La cosa più bella che mi sono sentito dire in questi anni dalle persone che parlavano con noi di Federico è stata: ‘tu e Patrizia ci avete fatto amare molto di più i nostri figli”.

I figli…da dieci anni, ogni sera Lino Aldrovandi rimbocca virtualmente le coperte del figlio Federico con un post pubblicato sul suo profilo Facebook: si tratta di una  frase, un pensiero, le strofe di una canzone, accompagnati dai fotogrammi estratti da vecchi filmati Vhs. Ritratti di Federico bambino e sorridente, al quale il padre ogni sera dà così, a suo modo, la buonanotte.
In attesa di quel “sobbalzo” delle persone che sono nelle istituzioni e nella politica…


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