Asia Bibi, sospesa la condanna a morte per blasfemia

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Da oltre 2200 giorni Asia Bibi, pakistana cristiana accusata di blasfemia nel 2010, è in attesa di giustizia. Oggi per la prima volta arriva un segnale importante, di speranza. Nel giorno in cui doveva essere emessa la sentenza definitiva i giudici hanno disposto la sospensione della pena di morte e il riesame del caso.
La decisione del collegio giudicante che si è espresso a Lahore è un passo verso la revisione del giudizio. E’ stato infatti dichiarato ammissibile il ricorso presentato dall’avvocato della donna, Saiful Malook.
Il momento decisivo per la sofferta storia di questa madre di cinque figli è dunque rinviato e si consumerà davanti ai giudici della Corte Suprema del Pakistan che entrerà nel merito delle questioni sollevate dalla difesa nella prossima udienza.
Il 16 ottobre dell’anno scorso la Corte d’Appello aveva respinto le richieste di incostituzionalità avanzate dai difensori sulla pena capitale che le era stata comminata ai sensi della sezione 295c del codice penale pakistano.
Il tribunale in primo grado aveva ritenuto che l’accusa di aver insultato il profeta Maometto durante un litigio con una donna musulmana, fosse suffragata da elementi sufficienti nonostante gli avvocati della Bibi sostenessero che la prova della sua presunta blasfemia fosse precostituita e che il caso giudiziario si basasse su un pettegolezzo.

Sembrava che i legali avessero convinto i giudici dell’Alta corte, ma questi ultimi avevano respinto il ricorso perché temevano, dopo aver ricevuto minacce di morte, per la loro incolumità.
Vari esponenti dei gruppi religiosi che chiedevano l’esecuzione di Asia Bibi erano presenti in aula durante il dibattimento.
Da quando è stata arrestata nel 2009, la Bibi è stata tenuta quasi sempre isolamento allo scopo di proteggerla.
La salute mentale e fisica della donna è andata deteriorandosi durante la permanenza in carcere. Come la sua sicurezza.
Nel dicembre 2010, un religioso islamico di primo piano aveva offerto mezzo milione di rupie pakistane (circa 4000 euro) a chiunque l’avesse uccisa.
Eppure lei non avrebbe nemmeno dovuto essere imprigionata, visto che le leggi sulla blasfemia sono incompatibili con gli obblighi internazionali del Pakistan di garantire i diritti alla libertà di espressione, di pensiero, di coscienza e di religione.
La Sharia (la legge islamica) è però spesso utilizzata per risolvere le controversie personali e coloro che sono accusati di aver offeso l’Islam diventano bersaglio di violenza.

Da quando la legge attuale è entrata in vigore nel 1980, decine di persone di diverse comunità religiose, tra cui musulmani, sono state attaccate e uccise da estremisti dopo essere stati accusati di questo reato, alcuni anche durante la detenzione.
Sul caso di Asia si è subito mobilitata Amnesty International che ha lanciato una campagna per chiedere la sua liberazione e la garanzia di misure efficaci per garantire la sua sicurezza e quella della sua famiglia.
L’organizzazione per i diritti umani ha anche inviato una lettera aperta al primo ministro pakistano per sollecitare una riforma della legge sulla blasfemia e fornire salvaguardie contro il suo abuso, nell’attesa dell’abrogazione definitiva della stessa.
Noi di Articolo 21 abbiamo sostenuto dal primo momento l’appello per chiedere al Pakistan di rilasciare Asia Bibi. Anche quando il giudice in secondo grado aveva ribadito la condanna, avevamo continuato a sperare. E a lottare.
Il clima di odio che aleggia intorno ad Asia Bibi non invoglia certo all’ottimismo, ma le diplomazie occidentali, in particolare gli Stati Uniti, non hanno mai abbassato la guardia e hanno continuato a fare pressioni sul governo di Islamabad.
E noi con loro.


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