“Sono una tomba, dovevo fare il mafioso, non il giudice”. Il dramma agghiacciante del gip suicida

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C’è un proverbio calabrese nella variante cosentina che, tradotto in italiano, suona pressappoco così: “La miglior parola è quella che non si dice.” Un piccolo omaggio all’omertà che caratterizza in tutto il mondo le associazioni mafiose e in particolare quella che ha le sue origini proprio in Calabria e che ora è noto nell’intero pianeta come ‘ndrangheta, associazione degli uomini secondo l’etimo greco che caratterizza il nome.

Pensavo a queste cose ieri sera, vedendo un telegiornale della Rai che mostrava il giudice per le indagini preliminari, cioè il gip secondo la solita abbreviazione, Giancarlo Giusti, agli arresti domiciliari, dopo essere stato condannato in maniera definitiva con due inchieste delle direzioni giudiziarie antimafia di Milano e Catanzaro per i suoi rapporti con la ‘ndrangheta in una intervista televisiva.

Giusti si è impiccato con una corda nella sua abitazione di Montepaone Lido, il centro della riviera marina di Catanzaro dove viveva da alcuni mesi. Giusti, che aveva quarantotto anni, si era da alcuni mesi separato dalla moglie. In una telefonata intercettata mesi fa dai magistrati milanesi aveva detto: “Sono una tomba, dovevo fare il mafioso, non il giudice.” L’ex giudice-secondo gli inquirenti- parlando con un boss della ‘ndrangheta   Giulio Lampada avrebbe aggiunto:”Non hai capito chi sono io…sono una tomba, peggio di .. ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice.” Un altro elemento dall’inchiesta milanese fu quello che gli inquirenti definirono “l’ossessione” dell’ex magistrato per il sesso oltre che per “i divertimenti, gli affari e le conoscenze utili”. In un “diario informatico” è stata ritrovata la seguente frase:” Venerdì notte brava con (…) Simona e Alessandra. Grande amore nella casa di Gregorio.”

Già, nel febbraio scorso, Giusti che era libero avendo già scontato quasi l’intera pena nella fase cautelare, era stato condannato dal giudice delle indagini preliminari di Milano a quattro anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere di Opera in cui era detenuto. E, dopo quel tentativo, aveva ottenuto gli arresti domiciliari.
Nella sua carriera era stato giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi. Era finito nei guai il 28 marzo 2012 quando venne arrestato con l’accusa di corruzione aggravata dalle finalità mafiose nell’ambito di una inchiesta della DDa di Milano sulla cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta “zona grigia” delle associazioni mafiose più forti nel Nord dell’Italia.  E,con ogni probabilità, al di là della vergogna per quello che era stato scritto sul suo ruolo di magistrato venduto alla mafia, non ha retto alla doppia vita cui è stato costretto negli ultimi anni servendo da una parte lo Stato e le leggi ma dall’altra coltivando rapporti e ricevendo denaro dagli uomini dell’associazione calabrese diventata negli ultimi anni quella più potente nella galassia ormai impazzita delle mafie “italiane”. Di qui la scelta di porre fine a un’esistenza fallita dopo aver raggiunto una posizione importante come quella del giudice. Un dramma a suo modo comprensibile ma tremendo per un giovane che aveva superato negli anni concorsi ed esami difficili e aveva ricoperto ruoli di indubbia responsabilità.


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