La sinfonia del sindacato

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In qualsiasi luogo del mondo (intonati o meno che si sia) chiunque sa canticchiare “Hey Jude” o “Let it be” o “Ticket to ride” dei Beatles, in quella specie di esperanto che è l’international English. Ma l’italiano non è da meno, se si intonano -ad esempio- la “Marcia dell’Aida” o “La donna è mobile” o “Va’ Pensiero”. E vi è una comunità italofona, che studia la lingua proprio per apprezzare l’Opera: dalla Svezia, al Giappone. Stiamo parlando, dunque, di uno dei punti chiave dell’identità culturale profonda dell’Italia: quella bella e pacifica, nell’epoca delle identità violente. Elementare? Non tanto, in verità. Visto che le Fondazioni lirico-sinfoniche stanno affogando in 330 milioni di euro di debiti,  e visto che l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma (la Capitale, giusto per dire) sono stati -lo scorso 2 ottobre- licenziati in tronco.

Forza lavoro eccedente(?) Rispetto a che, visto che il Teatro esiste in quanto –appunto- c’è chi lo fa esistere? Tuttavia, né il ministro Franceschini, né il sindaco di Roma Marino, né l’amministratore delegato Fuortes sembrano tenerne conto. E’ l’ideologia del tempo, in base alla quale la colpa dei dissesti finanziari cade su chi lavora. Per inciso, le retribuzioni italiane sono meno alte che nel resto d’Europa. Se mai, si rifletta sull’organizzazione del processo produttivo e sulle male gestioni. Già nel dibattito che portò alla legge 100 del giugno 2010 (Ministro dell’epoca Bondi) si era fatto presente che prima o poi il bubbone sarebbe scoppiato. Si preferì la “tolleranza repressiva”, per dirla in bella copia. La stessa legge 112 dell’ottobre del 2013–Ministro Bray- si è risolta nell’eterogenesi dei fini: al finanziamento possono accedere le Fondazioni che hanno messo in atto il risanamento. Quindi, ti sveni per avere le risorse, che forse arrivano post mortem. E’ un’aporia drammatica e grottesca, che fa pensare al film cult di Mike Nichols “Comma 22”. L’ipotesi, poi, degli accordi periodici con orchestre tratte dal mercato è una forma di esternalizzazione degna di Mrs.Thatcher e contraddice i vasti studi sull’economia politica della cultura, di cui pure il sovrintendente è maestro. L’Opera e la Lirica hanno un ciclo del valore ben diverso dalle merci materiali e sono difficilmente riproducibili. Attengono alla qualità democratica, nonché alla coscienza culturale. Con parole sue ne ha sempre parlato il dimissionario Muti.

A meno che il futuro stia nell’affitto della buca degli orchestrali, come è successo nell’anniversario della nascita di Verdi. Piuttosto, i media e la scuola potrebbero dare una mano: è sempre in lista di attesa la riforma dei Conservatori e della musica “totale”, come scriveva il grande Giorgio Gaslini. Insomma, un intervento pubblico è cruciale, accompagnato da un serio ripensamento, che deve sanzionare ben altri rivoli di spesa e di spreco. Si legga la stampa internazionale, da “The Guardian”, al “New York Times, alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” che ha scritto che a nessun tedesco verrebbe mai in mente di licenziare l’orchestra pubblica. Le tre federazioni internazionali che rappresentano i lavoratori dello spettacolo dal vivo hanno chiesto alle autorità italiane di ritirare i licenziamenti. Un invito da sottoscrivere, oggi che sono convocate le parti sociale per le procedure formali. Ad aprire la stagione non sarà l’”Aida”, bensì la “Rusalka”. Il Coro sarà sostituito dall’Armata Rossa, con “Internazionale” incorporata?

* Fonte: “Il Manifesto”


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