Per Meriam una speranza di salvezza, ma non possiamo abbassare la guardia

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Una sentenza pronunciata in una torrida Khartoum, nonostante sia solo maggio, ha sconvolto il mondo. Meriam Yahia Ibrahim Ishag 27 anni, cristiana, incinta e madre di un bambino di venti mesi, è stata condannata a morte perché non ha voluto rinnegare la sua fede. La sua unica colpa? Essere figlia di un musulmano e dunque considerata di religione islamica, pur essendo cresciuta nel culto cristiano – ortodosso. La notizia mi arriva via Skype, dalla voce di Khalid Omer Yousif, portavoce di ‘Sudan change now’. Era attesa. Giorni prima ne aveva parlato Radio Dabanga, di cui avevamo rilanciato i tweet. Si temeva che la sentenza potesse essere particolarmente dura, nonostante le rappresentanze diplomatiche di Stati Uniti, Gran Bretagna e Olanda avessero chiesto al governo sudanese di impegnarsi a far rispettare il diritto alla libertà di culto, come sancisce dal 2005 la stessa Costituzione (ad interim) sudanese.

A sollecitare l’intervento dell’ambasciata Usa il marito di Meriam, Daniel Wani, sud sudanese con cittadinanza americana che dopo aver sperato di chiarire quello che riteneva fosse un equivoco si è dovuto scontrare con l’intolleranza delle autorità giudiziarie locali.
Un’intransigenza ferma confermata anche dalla risposta pilatesca all’appello degli ambasciatori del presidente del parlamento del Sudan, che si è limitato ad affermare che “il potere giudiziario è autonomo e ben distinto da quello politico”. Quindi nessun intervento…
Il 12 maggio viene emessa la sentenza che, al rifiuto della giovane di rinunciare al suo credo, è stata confermata 72 ore dopo.
Meriam era stata arrestata dalle forze di polizia sudanesi il 17 febbraio e portata in carcere insieme al figlio dove tuttora attende di partorire: il primo giugno scade il tempo della gravidanza.
Nonostante questo il giudice che l’ha processata, Abbas Mohammed Al-Khalifa, non ha avuto alcuna pietà. E tutto il livore nei confronti di questa giovane mamma è stato manifestato con la lettura del verdetto a fine dibattimento.
Khalifa le ha ricordato con tono sprezzante che le erano stati concessi tre giorni per abiurare, ma avendo deciso di non riconvertirsi all’islam meritava l’impiccagione.
La Corte, che ha basato le sue accuse sulla denuncia del fratello e degli zii paterni, non ha creduto all’imputata, nata sì da padre mussulmano ma cresciuta nella fede cristiana da quando il genitore aveva abbandonato la moglie e i figli.
Lei aveva solo sei anni. Ma per la Sharia la religione si tramanda di diritto dalla linea paterna.
E c’è di più. Essendosi sposata con un cristiano, Meriam è ritenuta colpevole non solo di essersi convertita ad altra fede, ma anche di aver commesso adulterio in quanto il matrimonio tra culti diversi non può essere riconosciuto.
La mobilitazione per questo abominevole sopruso è stata immediata. Grazie a ‘Italians for Darfur’, che ha lanciato una petizione per raccogliere firme da mandare al presidente del Sudan per chiedere di sospendere l’esecuzione e concedere la grazia, la notizia ha iniziato a girare in rete, sui social network, per essere poi ripresa da agenzie di stampa, tv e quotidiani che mai, come in quest’occasione, hanno dato grande risalto a una vicenda di diritti umani violati in Sudan.
Ora bisogna vigilare e tenere alta l’attenzione sul caso.
Nonostante all’indomani della sentenza fonti ufficiali del governo abbiano assicurato che Meriam avrà un nuovo processo e che il giudizio finale spetterà alla Corte costituzionale, non sulla base del diritto islamico e dunque con l’esclusione della pena capitale, la nostra battaglia non si fermerà e continuerà fino a quando non sarà libera di tornare a casa.


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