Perché l’Egitto ci riguarda

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Le centinaia di morti e di feriti che si stanno accumulando nelle strade del Cairo e di altre città egiziane, sono il frutto di molti elementi di crisi, di fatti storici e complesse vicende che non possono però cancellare alcuni dati di fatto essenziali.

Gli organismi sovranazionali come l’Unione europea o le Nazioni Unite, si giustificano solo se in momenti cruciali della storia – quando entrano in gioco le vite di migliaia di persone, i diritti civili, la libertà, lo stesso futuro di un popolo – sono capaci di intervenire con il loro peso politico mettendo in campo pressioni diplomatiche per far cessare lo spargimento di sangue e un protagonismo immediato nell’assumere un ruolo di mediazione fra le parti in conflitto. Senza di questo ogni ipotesi di integrazione fra nazioni e Stati assume ormai la forma di accordi fra potentati economici e politici, rappresentano cioè la negazione di un’idea condivisa di diritti e di democrazia; l’Europa, in questo, ha una sua specifica responsabilità e al suo interno l’Italia. Il Mediterraneo è il nostro mare, il mondo arabo è l’altra metà della nostra storia, lasciare che esploda è miope e sucida, ma soprattutto è ingiusto.

Discorso a parte meritano gli Stati Uniti che con la loro posizione così incerta stanno favorendo una deriva violenta in tutta la regione. Molte sono le ragioni di questa scelta, ma ora interessa dire e ripetere che la Casa Bianca ha da diversi decenni (dagli accordi di Camp David) un rapporto strettissimo con l’armata egiziana, da qui una specifica responsabilità americana.

Ancora non si può nemmeno dimenticare che il presidente Morsi è stato rovesciato certo dalle armi dei militari, ma sull’onda di una contestazione di proporzioni mai viste da parte del popolo; lo stesso Morsi stava dando il via libera a una serie di provvedimenti antidemocratici (lo ha ricordato uno studioso serio come Gilles Kepel su Repubblica). La crisi apertasi in Egitto insomma non aveva facili vie d’uscita, ma certo l’escalation di sangue porta il Paese non verso il ripristino della democrazia ma sulla strada della guerra civile.

Resta aperto il problema del rapporto fra islam tradizionale e democrazia: il tentativo di costruire società inclusive nel mondo arabo attraverso modelli propri e originali non può essere dimenticato o taciuto. C’è, più in generale, un tema: quello della progressiva secolarizzazione della regione che oggi sta producendo, accanto a progressi e cambiamenti, crisi e morte perché s’intreccia con la messa in discussione di poteri antichi, e di regimi dentro conflitti etnici e politici terribili.

Per questo dalla Siria all’Egitto la battaglia anche culturale è per costruire società laiche dove componenti diverse convivano, dove anche i musulmani non fondamentalisti – la maggioranza – riescano a vivere in pace, dove anche curdi, cristiani, socialisti, liberali, giovani delle università, e partiti musulmani possano confrontarsi anche duramente ma senza più ricorrere alle armi né alle dittature. E’ questo anche il sogno e l’impegno di padre Paolo Dall’Oglio, e ancora per questo milioni di arabi sono scesi in piazza negli ultimi due anni e lo stanno facendo di nuovo oggi in Tunisia.

Intanto dal Libano all’Iraq la strategia delle bombe, di chi vuole gli arabi gli uni contro gli altri armati, prosegue. Così come cresce di giorno in giorno quel popolo di profughi in fuga dalle guerre che vuole ‘solo’ una vita normale. Presto sbarcheranno a Lampedusa e altrove e allora, un’altra volta, saremo chiamati alle nostre responsabilità.


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