L’11 giugno 1984 moriva Enrico Berlinguer. Chi ricorda con l’azione e le parole la sua lezione?

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L’anno prossimo, di questi tempi, gli italiani della mia come  di successive generazioni che hanno vissuto, con particolare passione –  facendo politica – la crisi  dell’Italia negli anni Settanta e Ottanta (caratterizzata dal tentativo di accordo temporaneo tra democristiani e comunisti sfociato tra il 1976 e il 1979 nel governo di solidarietà nazionale di Giulio Andreotti e segnato  dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro) ricorderanno Enrico Berlinguer. A metà marzo di quest’anno, in un convegno organizzato dall’accademia Moro a Roma, ho detto che allora iniziò il degrado della vita pubblica repubblicana di cui stiamo scontando in questo momento tutte le conseguenze e che quindi non è accettabile, come a volte si fa in questo periodo, parlare oggi del governo Letta-Alfano come di una riproduzione di quel tentativo fallito proprio perchè, a livello  nazionale come internazionale, i poteri occulti, che ancora dominano in parte il nostro paese, si opposero a  quel tentativo di collaborazione tra le due culture fondamentali della resistenza e della costituzione. Il che oggi, come capirebbe chiunque, non si tenta neppure.

Ma se vogliamo parlare di Enrico Berlinguer a ventinove anni dalla sua morte (morì a Padova, durante un comizio, proprio l’11 giugno 1984) dobbiamo ricordare che proprio allora in quegli anni, Settanta e Ottanta, era iniziata la transizione dall’Italia come repubblica dei partiti. E si era lontani dal  paese di oggi  dominato ancora dopo un ventennio  dai populismi mediatici, dai partiti personali che ha l’unico governo possibile secondo le regole parlamentari e tenta disperatamente di accantonare il Porcellum con cui votiamo dal 2005  e il bicameralismo perfetto previsto dalla carta costituzionale senza per questo (almeno io spero)

scegliere il presidenzialismo che Berlusconi e i suoi (ma anche alcuni amici democratici ) vorrebbero sostituire a un governo parlamentare che occorre  invece rafforzare e razionalizzare perchè sia più moderno ed efficiente. Già perchè mi accorgo da osservatore e storico dell’Italia che nella lotta politica sono caratteristici, purtroppo anche a sinistra, l’assenza di dibattito, la prevalenza degli obbiettivi privati e personali di una gran parte del ceto politico, costumi nettamente oligarchici in cui è difficile individuare una concezione chiara del servizio pubblico nè una concezione che si richiami a idee per il futuro che riguardino tutta la comunità, con una particolare attenzione per le nuove generazioni. Da questo punto di vista, credo che l’esperienza di Berlinguer, pur con i suoi errori e le sue contraddizioni che pure ci furono, rappresenti ancora una lezione, partendo da un binomio del tutto accantonato. Il binomio etica-politica che resta il solo strumento che genera davvero consenso nella maggioranza degli italiani e non costringe a governare soltanto con la forza, cosa peraltro impossibile e foriera di crisi continue; ma, allo stesso tempo, salvaguarda la dignità di quelli che governano come dei governati. L’altro binomio, in larga parte abbandonato anche a sinistra è il binomio politica-cultura che è, amio avviso, il solo strumento che consente alla sinistra di costruire una visione del mondo diversa dalla vecchia visione socialista e comunista ma anche da un pragamstismo flessibile e disposto a tutto pur di ottenere il potere che mi è accaduto di incontrare in questi ultimi vent’anni. E questo coincide con un classico della guerra fredda dell’ultimo settantennio: prima la tattica della strategia.

Berlinguer, vorrei ricordarlo, è nei primi anni ottanta, dopo il fallimento dell’accordo con Moro e i cattolici democratici, non è soltanto il più fermo oppositore della deriva corruttiva, economicamente fallimentare del partito socialista guidato da Bettino Craxi, ma cerca di costruire una strada nuova sul piano dei contenuti politici, soprattutto attraverso alcune indicazioni. Il suo modo di parlare della questione morale nasce in relazione al panorama offerto dalle classi dirigenti di governo di fronte al terremoto del 1980 nel Mezzogiorno. Questa reazione di Berlinguer si traduce in un atto di accusa contro la degenerazione dei partiti e delle istituzioni: due problemi mi sembra di poter dire che nel 2013 non sono stati ancora risolti e di fronte ai quali è il governo Letta-Alfano. E’ vero che mancò, da parte di Berlinguer, una proposta compiuta per risolvere quei problemi ma dobbiamo altresì ricordare che fu lasciato solo nel suo partito e fu l’unico allora a intuire che la questione morale sarebbe diventata a poco a poco il problema centrale della transizione italiana. Il PCI aveva allora quasi il trenta per cento dei consensi e, di fronte al terremoto, il 25 novembre 1980 il segretario di quel partito disse: “Il dramma del terremoto che sopravviene sconvolgente in un momento di profondo turbamento per l’intreccio degli scandali e dei torbidi intrighi di potere, accresce all’estremo nella coscienza dei cittadini  l’esigenza di una svolta che garantisca onestà, correttezza e prestigio nella guida del paese.”
Ebbene, gli scandali e i torbidi intrecci di potere non mancano nell’Italia del 2013 e non è il caso di enumerarli. Ma chi ricorda con l’azione e le parole  la lezione di Enrico Berlinguer?


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