Capaci e via D’Amelio. Vent’anni dopo

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Sono trascorsi vent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il 23 maggio 1992  sull’autostrada che va dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo 500 chili di tritolo esplodono alle 17,56 al passaggio del giudice Giovanni Falcone. Muoiono con lui la moglie Francesca Morvillo, magistrato, gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Trascorrono solo 57 giorni, il 19 luglio, sempre a Palermo, Paolo Borsellino sta entrando nell’abitazione della madre… un telecomando fa esplodere una Fiat 126 imbottita con 100 chili di tritolo. Con il giudice muoiono gli agenti Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. Erano stragi annunciate. Nei giorni successivi esplose una rabbia generale nei confronti di uno Stato che non era riuscito a evitarle.

Con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino muore il riscatto, non solo di una regione, la Sicilia, ma di un Paese intero. Da servitori dello Stato, da magistrati che svolgevano semplicemente il loro lavoro i due giudici sono stati elevati a simbolo, a eroi. Stava scritto su un lenzuolo durante una manifestazione organizzata a Palermo subito dopo la seconda strage: “Non li avete uccisi, le loro idee camminano con le nostre gambe”.                                                                                                                 

In questi vent’anni altri magistrati hanno continuato il lavoro di Falcone e Borsellino: Gian Carlo Caselli, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Ilda Boccassini, Luca Tescaroli e altri ancora. Con le loro indagini ci hanno fatto comprendere che la mafia non è solo violenza e sopraffazione, ma è capacità di insinuarsi nella vita quotidiana. Oggi la criminalità organizzata è meno visibile, si è vestita in giacca e cravatta. I fatti ci dicono che tra mafia, politica e istituzioni vi è collusione. La condanna definitiva di Totò Cuffaro; il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri che avrebbe preso, secondo il pentito Stefano Lo Verso (il boss di Ficarazzi), il posto di Salvo Lima; le indagini sul presidente del Senato Renato Schifani; l’ex ministro del governo Berlusconi Saverio Romano; per non parlare di esponenti della magistratura e delle forze dell’ordine condannati in via definitiva. Cosa nostra ammicca al potere e il potere risponde. Tommaso Buscetta disse a Falcone, quando questi aveva iniziato ad indagare sul rapporto mafia e politica: “Decidiamo chi di noi deve morire per primo”.  Il pentito avvisò il giudice del rischio che stava correndo. Falcone aveva intuito che lì stava il cuore del problema.

Per sconfiggere la criminalità organizzata bisogna recidere il suo rapporto con la politica. Il pm antimafia di Palermo Nino Di Matteo ha recentemente affermato: “Quando si incomincia ad indagare iniziano le polemiche, si mette in moto la delegittimazione e l’isolamento dei magistrati”. E’ esattamente quello che accadde a Falcone e Borsellino che, prima di essere uccisi, furono lasciati soli e traditi.

Le stragi hanno travolto la politica da Giulio Andreotti a Oscar Luigi Scalfaro, che diventa presidente tra i due fatti criminali, il 25 maggio 1992, non a caso nel febbraio 1993, poco prima degli attentati di Firenze, Milano e Roma, a lui fu indirizzata una lettera arrogante, violenta, minacciosa, scritta dai famigliari di alcuni mafiosi detenuti in regime di 41 bis nelle carceri di Pianosa e dell’Asinara. Quello che i magistrati oggi si chiedono è se quelle minacce sortirono gli effetti desiderati. Sempre il 41 bis era uno dei punti contenuti nel papello di Totò Riina all’inizio della trattativa tra mafia e Stato. In Italia quante persone sanno che in una sentenza definitiva è sancito che Andreotti “ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi (…) Che a sua volta ha coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss (…) ha chiesto favori, li ha incontrati, ha interagito con essi, ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi come l’assassinio del presidente della regione Piersanti Mattarella, nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati”?

Falcone è esasperato e decide di abbandonare Palermo e quel Palazzo definito dei corvi e dei veleni. Lascia da sconfitto per mano dei colleghi e soprattutto dalla politica, ma non da vinto, arriva a Roma, al ministero della Giustizia con Claudio Martelli. Il 1992 è l’anno in cui la Cassazione conferma le condanna alla galera a vita per la cupola della mafia grazie al maxiprocesso. Le promesse fatte a Totò Rina di un “aggiustamento” non vengono mantenute. Prima ancora il Parlamento aveva approvato il decreto sulla creazione della Direzione nazionale antimafia, voluta e pensata da Falcone. Il suo lavoro a Roma comincia a produrre risultati importanti. La mafia reagisce, il sangue comincia a scorrere. Il 12 marzo viene ucciso Salvo Lima, il braccio destro di Andreotti in Sicilia.

Paolo Borsellino pochi giorni dopo la strage di Capaci interviene alla fiaccolata dei boys scout  dell’Agesci: “La lotta alla mafia, il primo problema nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata lotta di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni, le più adatte nel sentire subito le bellezze del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale dell’indifferenza, della contiguità e quindi dello complicità”. E’ un atto d’accusa forte, drammatico ma ancora un volta inutile perché inascoltato.

Dopo la morte di Falcone gli obiettivi della mafia sono i politici che non hanno mantenuto le promesse, che l’avevano tradita: Calogero Mannino, ministro per gli Interventi straordinari per il mezzogiorno, Carlo Vizzini ministro delle Poste e telecomunicazioni, Salvo Andò ministro della Difesa e Sebastiano Purpura,  fedelissimo di Lima e anche il ministro Martelli ma per motivazioni diverse: aveva la responsabilità di aver chiamato Falcone al ministero. Borsellino decide di continuare la strada del suo amico Giovanni. Il suo impegno diventa frenetico. Era tornato a Palermo nel dicembre 1991 come procuratore aggiunto e nonostante l’ostracismo del procuratore capo Giammanco che gli vieta indagini nel capoluogo siciliano, diventa il punto di riferimento dei colleghi. Dopo la morte di Falcone anche dei colleghi di Caltanissetta che ha la competenza delle indagini sulla strage di Capaci.

Borsellino aveva capito che la causa della morte dell’amico era il rapporto tra mafia, politica e istituzioni, aveva scoperto qualche cosa che lo ha fatto condannare a morte. In una intervista di Giuseppe D’Avanzo sulla deposizione che farà ai magistrati di Caltanissetta: “Fornirò ai colleghi notizie su fatti e circostanze di cui sono a conoscenza”. Purtroppo Borsellino verrà ucciso prima della deposizione. Lo dimostrano anche le parole della moglie Agnese contenute nei verbali degli interrogatori (agosto 2009 e gennaio 2010). Il giudice le aveva confidato qualche giorno prima della morte che il generale dei carabinieri Antonino Subrani (all’epoca comandante dei Ros) era pungiuto (apparteneva a Cosa nostra). Fu lui ad avallare la falsa ipotesi che Peppino Impastato morì mentre stava collocando una bomba per un attentato alla ferrovia. Impastato fu ucciso per ordine del boss Tano Badalamenti. Nell’ultimo incontro con la moglie Borsellino le confidò che la mafia lo avrebbe ucciso ma a permetterlo sarebbero stati i suoi colleghi. Il giudice era a conoscenza dei contatti tra gli ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno con Vito Ciancimino. Nei giorni precedenti in un incontro casuale all’aeroporto di Fiumicino aveva saputo da Liliana Ferraro, direttore generale del ministero della Giustizia, che era arrivata una notizia da fonte confidenziale che era stata programmata una strage per ucciderlo e che la nota era stata inviata al procuratore Giammanco. Paolo Borsellino non ne sapeva nulla.

Il vero potere è la mafia, e lo ha sempre dimostrato: ammazzando, mandando politici a Roma, trattando con lo Stato. Cosa nostra ha delle regole e le fa rispettare. Se decide di eliminare qualcuno, esegue. Lo disse Buscetta a Enzo Biagi, a proposito di Totò Riina quando era ancora latitante e capo dei capi: “Pare che faccia un vita nomale, partecipa ai vertici, stabilisce alleanze, è impietoso, astuto, pronto a capovolgere rapporti e a decretare sentenze di morte”.    

Perché Riina ha potuto starsene tranquillamente a Palermo?  Perché Bernardo Provenzano ha potuto fare il latitante per quarantatre anni nonostante che i carabinieri del Ros conoscessero la cascina in cui si nascondeva sin dal 1995 mentre l’arresto è avvenuto solo nel 2006?

Cosa nostra, la criminalità organizzata in generale, continua ad essere un dramma che perseguita l’Italia e gli italiani che hanno il diritto di conoscere la verità.


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