Turchia: arrestati per aver firmato un appello per la pace

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La parola “retata” per un’operazione di polizia, ricorda i fermi per spaccio o per criminalità. In Turchia si usa per gli intellettuali: oltre venti professori dell’Università di Kocaeli sono stati arrestati solo per aver firmato un appello per la pace, per aver chiesto al presidente Erdoğan di fermare le attività militari dell’esercito nelle città turche a maggioranza curda sui confini tra Siria e Iraq. E sempre questa mattina sono finiti in commissariato altri tre accademici dell’Università Abant Izzet Baysal, a nord-ovest dell’Anatolia, mentre le loro abitazioni venivano perquisite dalle forze dell’ordine. Ora sono tutti indagati per incitamento all’odio e propaganda terroristica a favore del Pkk. Un clima di terrore per chi non si adegua alle posizioni del governo.
“Non vogliamo essere coinvolti in nessun modo in questo massacro” è il senso della lettera firmata da 1128 professori di 89 università non solo turche, che hanno chiesto la fine immediata del conflitto con i separatisti curdi del Pkk. La risposta del Capo dello Stato non si è fatta attendere: ha definito i firmatari “sostenitori del terrorismo”, poco dopo la magistratura ha aperto un’inchiesta e sono scattati, da un parte, gli arresti, dall’altre le intimidazioni. Il consiglio per l’educazione superiore (Yok) ha annunciato azioni punitive all’interno degli atenei e già giovedì sera una professoressa dell’università di Giresun è stata sospesa dal proprio incarico per aver firmato la lettera.

Questi arresti sono la manifestazione plastica del grado di libertà di espressione in Turchia: intellettuali accusati di sostegno al terrorismo per aver posto la loro firma in calce a un appello per chiedere una soluzione pacifica alla questione curda, arrestati con un’accusa così pesante da spaventare chiunque voglia schierarsi in difesa dei diritti umani. Un clima che terrorizza tutti quei giornalisti che vogliano documentare cosa accade nell’antico Kurdistan turco: nei mesi scorsi a un reporter di Özgür Gün Tv la polizia aveva puntato la pistola alla testa mentre filmava la violenza dei militari nei confronti dei civili nella città di Silvan. Nonostante a parole il nemico principale contro cui combattere, insieme alla coalizione occidentale, sia lo Stato Islamico, gran parte delle attività della Turchia sono rivolte contro i curdi, i principali oppositori dell’Isis, a cui hanno già strappato Kobane e Sinjar. Eppure Erdoğan indica i firmatari dell’appello – chiamati traditori – come “principali nemici” assieme ai militanti del partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, “e chi li sostiene”.

L’appello era stato sottoscritto anche da moltissimi intellettuali internazionali, come il sociologo Edgar Morin, l’economista Thomas Piketty, il giornalista americano Paul Steiger, il politologo David Harvey e il linguista Noam Chomsky. Proprio quest’ultimo in una e-mail inviata a The Guardian ha accusato il Capo dello Stato di ipocrisia: “La Turchia [per l’attacco a Istanbul] ha accusato l’Isis che però Erdoğan aiuta in molti modi, anche sostenendo il, seppur leggermente diverso, Fronte Al-Nusra. Poi ha lanciato un attacco contro chi condanna i suoi crimini contro i curdi, che sono fra le forze che contrastano l’Isis in Siria e in Iraq. C’è bisogno di commentare ulteriormente?”, ha scritto. Già nel mese di dicembre, Chomsky, insieme a un centinaio di persone, in una lettera aperta al Presidente Erdoğan, aveva parlato in questo modo del coprifuoco imposto nelle città curde dal governo: “Con gli assedi imposti alle loro comunità nel sud-est della Turchia, ha di fatto dichiarato guerra al suo stesso popolo”.
Con Ivan Grozny a novembre avevamo documentato quel che stava accadendo, raccogliendo testimonianze importanti poi trasmesse dal Tg1: civili sfiancati da coprifuochi durati anche venti giorni consecutivi, città bombardate dagli elicotteri dell’esercito, case mitragliate, ospedali chiusi. È difficile fare un conto esatto delle vittime, ma in pochi mesi, da agosto, da quando il Capo dello Stato ha fatto saltare i negoziati di pace col Pkk, si contano almeno 2mila morti e più di 100mila sfollati. Una guerra civile strisciante che non si è mai guadagnata le prime pagine dei giornali. Ha ricordato la questione curda, in una lettera dal carcere in cui è rinchiuso da novembre, anche Can Dundar – direttore di Cumhuriyet che rischia due ergastoli per aver pubblicato un’inchiesta su un traffico d’armi dalla Turchia alla Siria con la scorta dei servizi segreti turchi -. E si è rivolto direttamente al premier Renzi in una “Lettera aperta da un giornalista turco in galera al primo ministro dell’Italia”, chiedendo di non ignorare le “violazioni dei diritti umani” in Turchia in cambio di un accordo sui migranti.

Per questa ragione è importante esserci, il 21 gennaio, alle 11, davanti all’ambasciata turca nella manifestazione organizzata da Fnsi, Usigrai e Articolo 21: è importante far sentire anche la voce di noi giornalisti italiani, rispondere all’appello di solidarietà lanciato Can Dundar e chiedere – insieme a lui – il rispetto dei diritti umani nella Turchia che si affaccia all’Europa.


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