La sola colpa di Yitzhak Rabin, indimenticabile primo ministro israeliano, colui che insieme a Yasser Arafat aveva siglato gli Accordi di Oslo e riacceso le speranze si pace in una regione da sempre ridotta a una polveriera, era stata, per l’appunto, quella di credere fino in fondo nella convivenza fra popoli che fino a quel momento si erano detestati. Pur essendo un generale israeliano, infatti, credeva nella virtù del dialogo e del confronto, contro ogni ferocia ed estremismo: da qui l’odio di quella frangia fondamentalista che vediamo oggi all’opera nel governo Netanyahu, a cominciare dal ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. È inutile prendersela, dunque, con Yigal Amir, il giovane che materialmente lo uccise, perché la sua mano è stata armata da altri, molti altri, da tutti coloro che hanno tratto non pochi vantaggi dalla sua eliminazione. E per vantaggi non intendiamo solo una fortuna politica ed elettorale ma anche l’avanzare, nella società israeliana, della furia che ormai la sta divorando, al punto che un’ebrea della diaspora come Anna Foa ha parlato in uno splendido saggio di “suicidio di Israele”, interrogandosi se possa avere un domani un paese ahinoi in guerra con se stesso prim’ancora che con l’intera regione mediorientale. Sbaglia, tuttavia, chi ingenuamente, e non è certo il caso della Foa, pensa che a Netanyahu e soci dispiaccia questo stato di cose: loro, al contrario, vivono per la guerra, per la divisione, per la distruzione e per la logica del predominio, non essendo in grado di concepire un altro modo di intendere la politica. Del resto, ormai dovrebbe essere chiaro a chiunque: il premier israeliano è il principale ostacolo, ancor più di Hamas, a qualsivoglia idea di pace, ma anche solo di tregua, prova ne siano le scuse con le quali sta di fatto rompendo ogni fragile equilibrio in nome della ripresa delle ostilità. C’entrano anche i suoi carichi giudiziari, non c’è dubbio: l’alternativa per lui potrebbe essere la galera, o comunque la conclusione della sua lunga e devastante carriera, pertanto è disposto a tutto pur di mantenersi a galla, compiacendo in ogni modo i coloni che vogliono sventrare la Cisgiordania, il già citato Ben-Gvir e il suo degno compare Smotrich e tutti coloro che hanno deciso di chiudere per sempre i conti con il concetto stesso di Palestina.
Ricordare Rabin ci sembra, pertanto, quanto di più lontano dalla realtà contemporanea, potremmo dire l’esatta antitesi, eppur si deve. A differenza di altri osservatori, compresi amici e persone rispettabili, infatti, siamo convinti che salvare Israele da se stesso, tendere la mano a quella parte della società israeliana che non si rassegna all’orrore e stare attenti a non confondere l’intero popolo con il suo pessimo governo, pur tenendo conto del fatto che attualmente l’esecutivo goda di un vasto consenso, tutto questo sia indispensabile per non piegarci alla logica dello scontro e del conflitto che è alla base dell’escalation cui abbiamo assistito negli ultimi due anni.
Se pur tutti, noi no. Se anche il mondo intero precipita verso la guerra, noi rilanciamo una prospettiva di pace. Se anche qualcuno ci definisce ingenui, rivendichiamo la nostra diversità e, eventualmente, anche la nostra ingenuità. Se dobbiamo passare per fessi solo perché non ci arrendiamo alla ferocia dilagante, accettiamo con orgoglio quest’etichetta. Se per tutti, ribadiamo, noi no. E rievocare Rabin agitando i tamburi di guerra ci pare un modo ipocrita per rendere omaggio a uno statista e a uno straordinario uomo di pace e di dialogo, tradito, oggi come allora, dal suo stesso Paese ma proprio per questo ancora più eroico. Perché prima o poi anche Netanyahu cadrà e non vorremmo che quel giorno non fossero rimaste altro che le macerie: materiali ma, soprattutto, morali, in una Nazione che ha già perso, avendo smarrito la sua anima e la sua unicità, oltre ai valori democratici di cui un tempo era portatrice e dai quali adesso non potrebbe essere più lontana.
