Giornalismo sotto attacco in Italia

Un segnale dal basso che non può essere ignorato

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Numerosissima e molto eterogenea la partecipazione registrata venerdì a Trieste, dove circa 8 mila persone — un numero impressionante per una realtà come il capoluogo giuliano — hanno partecipato al corteo lungo le vie della città e al presidio in porto. Già la sera precedente a seguito del fermo imposto alla Sumud Flotilla tantissima gente aveva sfilato autonomamente senza alcun bisogno di richiami sindacali o scioperi, ma per sincera e spontanea solidarietà alla causa palestinese.

“From the river to the sea” è stato lo slogan urlato durante la manifestazione: suonava volutamente storpiato in una città che chiama la sua zona affacciata sul mare “le Rive”, quasi un’ironia involontaria ma potente; in testa moltissimi studenti, seguiti da gruppi legati a sindacati, partiti e associazioni; al centro, però, c’era la folla più numerosa: persone senza simboli, se non quelli palestinesi.

Al termine del corteo un momento di raccoglimento e riflessione, con interventi di studenti, rappresentanti dell’ANPI, sindacalisti e membri di alcune forze politiche: non si è parlato d’altro che di pace e dell’urgenza di ristabilire l’umanità come valore cardine qui e ovunque. Non c’erano volti rassegnati, ma una commozione condivisa. Un ragazzo ha detto: «Se non fossi qui, mi sentirei in colpa». Una frase semplice, ma che sembra ormai rappresentare il pensiero comune che spinge sempre più persone a scendere in piazza.

È stata una denuncia netta contro la violenza perpetrata da Israele, ma anche contro il silenzio — considerato complice — delle istituzioni italiane.

La piazza di venerdì ci dice che non c’è rassegnazione di fronte all’ingiustizia. Che da questa mobilitazione nasce un segnale forte, dal basso, che non può essere ignorato. Un segnale di nuova aggregazione tra generazioni, tra classi, tra esperienze diverse. Non ci sono stati disordini, perché — come è stato detto — «quelli che vengono chiamati estremisti sono in realtà pacifisti». C’è un filo che lega queste persone: la convinzione profonda che esista un limite invalicabile alle ingiustizie che un essere umano può subire.

Che i governi e i poteri economici facciano spesso gli interessi di pochi è stato tollerato a lungo. Ma ora che le cosiddette “fasce estreme” — se con questo si intende il desiderio di cambiamento — sono sempre più affollate di persone comuni, e che sempre più se ne aggiungono, significa che non c’è più spazio per confondere la tolleranza con l’incoscienza.

 

(foto Fiorella Costantini)


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