Brucia il cielo di Teheran: il signor Mileikowsky – è polacco il cognome di nascita di Netanyahu – ha appiccato un altro incendio. I caccia con la stella di Davide seminano morte e distruzione sul corpaccione inerte dell’antichissimo leone persiano. Gli ayatollah – quei teocrati ciechi e neri che che impiccano gli oppositori e frustano le donne senza velo – forse preparano già la fuga ma, intanto, anche loro lanciano una pioggia di missili sul nemico.
Ferita appena, Tel Aviv già canta vittoria: un altro mirabolante successo, dopo lo sterminio dei palestinesi inermi di Gaza e il massacro quotidiano in Cisgiordania, che continuano senza tregua ma, in queste ore, un po’ più lontano dalla luce dei riflettori.
Lasciamo ad altri, più esperti, il compito di giudicare le ragioni e gli effetti di questa ennesima impennata della hybris dei generali e del cinismo degli industriali delle armi: seduti nei bunker o riuniti intorno ai lucidi tavoli delle loro corporations miliardarie, seminano morte ovunque, a suon di dollari, euro e shekel.
In tutto questo c’è un fatto che mi colpisce in modo brutale. Osservando le mappe quotidiane dei bombardamenti sull’Iran, i bersagli che i missili e i caccia prendono di mira e distruggono, mi torna alla mente un tempo di pace molto lontano, tanto da poter sembrare irrealistico.
Correva l’anno 1953, quello del colpo di stato britannico contro Mossadeq: non proprio un Eden, è vero; ma sembra pace, se confrontato con l’oggi.
Sono Thierry Vernet, pittore e illustratore di ventisei anni, e Nicolas Bouvier, giornalista ventiquattrenne, entrambi ginevrini. La loro avventura, durata fino alla fine del 1954, è descritta dallo stesso Bouvier in un libro che, letto oggi, potrebbe sembrare quasi fantascientifico: “L’usage du monde”, uscito nel 1963 per Payot e tradotto in italiano da Feltrinelli con il titolo “La polvere del mondo”.
Dai Balcani alla Turchia, attraverso l’Iran e poi il Pakistan, l’Afghanistan, fino al celebre Khyber Pass che conduce in India, dove il viaggio s’interrompe. Quasi in ogni pagina Bouvier ci consegna emozioni e osservazioni languide o aspre, note raffinate e argute, sentimenti larghi e intensi di comprensione, ombre di ragionevoli dubbi e un desiderio sempre palese e sincero di umanità condivisa. La sua è una testimonianza che oggi appare preziosissima: quasi tutto il mondo che descrive con tanta, accorata partecipazione è scomparso per sempre. Ancor più vero ora, sotto le bombe.
Ed è appunto sulle lontane cronache iraniane di Bouvier che vorrei suggerire di soffermare la nostra attenzione, alla ricerca di una suggestione capace di lenire l’angoscia di questi tempi di guerra. Torno alle mappe degli obiettivi colpiti dai bombardamenti: i nomi sono gli stessi di allora, medesimi i luoghi. Tabriz, Teheran, Isfahan: il nord della Persia, tra le rive ripide del mar Caspio e l’Iraq, altra terra martoriata da guerra infinita. Oggi da quei luoghi si alzano al cielo le fiamme degli incendi, friggono i pasdaran sotto il fuoco dell’IDF, le forze armate di Tel Aviv. E io, colmo di una nostalgia ben strana – per un non-vissuto ma soltanto letto – sono alla ricerca di una testimonianza che renda l’idea dell’immane, tristissima distanza tra qui e lì, tra oggi e allora.
Attraversata l’intera Anatolia, Bouvier dedica all’Iran centosettanta pagine: davvero tante, su un totale di 417. L’intero capitolo è intitolato “Il leone e il sole”, due soggetti mitologici che fin dall’inizio ci trasportano lontano, tra rovine remotissime e lingue diverse, popoli, musiche e cibi che variano a ogni passo. Quindi leggo e sfoglio, torno indietro e vado avanti… e poi: ecco, ho trovato! Siamo a Tabriz.
«La cucina turca è la più sostanziosa del mondo; l’iraniana, di una sottile semplicità; l’Armenistan, ineguagliabile nel confit e nell’agrodolce; e noi, noi mangiavamo soprattutto pane. Un pane meraviglioso. Allo spuntar del giorno, l’odore dei forni veniva attraverso la neve a stuzzicarci le narici; quello delle pagnotte armene al sesamo, calde come tizzoni; quello del pane sandjak che ti fa girare la testa; quello del pane lavash, in sottili foglie chiazzate di bruciature. E davvero solo un paese molto antico può porre così il suo lusso nelle cose più quotidiane; si percepivano facilmente le trenta generazioni, con qualche dinastia, allineate dietro quel pane. Con quel pane, del tè, cipolle, formaggio di capra, una manciata di sigarette iraniane e i lunghi ozi dell’inverno, eravamo proprio dal lato buono dell’esistenza».
Il pane: quello dell’ultima cena, che i cristiani spezzano nell’Eucarestia. Il pane, quello azimo della Pasqua nel deserto di Mosè. Il pane, quello d’orzo che il profeta prediligeva e che nessun buon mussulmano calpesta. L’odore del pane sale dalle pagine di un vecchio libro e ritorna vivo, dai forni di Tabriz alle nostre narici, infettate dalla cordite… l’auspicio, lo so, è ingenuo: che quell’aroma antico di millenni inebri le menti dei guerrafondai e li faccia sedere di nuovo intorno alla tavola, finalmente disarmati.