Gianni Minà, una vita dalla parte del torto

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Vien voglia di immaginarseli a tavola, lassù, Gianni, Diego, Marco, Muhammad, Pietro, Luis, Gabo e va a capire quanti altri geni e campioni dello sport tra i tanti che il nostro amico Minà ha conosciuto e intervistato nel corso di un’avventura umana e professionale inimitabile. Vien quasi voglia di sorridere pensando a come se la staranno spassando, lui e Diego, di fronte a questo Napoli prossimo a diventare campione d’Italia, mentre volge al termine un campionato che i ragazzi di Spalletti hanno dominato dall’inizio alla fine.

Gianni l’ho conosciuto nella parte conclusiva della sua vita. La prima volta che lo intervistai avevo diciassette anni, aveva appena dato alle stampe un saggio, una raccolta di articoli per l’esattezza, intitolato “Politicamente scorretto”, e a me sembrava incredibile anche solo il fatto che un simile fuoriclasse avesse trovato il tempo per confrontarsi con me. Poi il miracolo si è ripetuto altre volte. Quando scriveva un libro, sapeva che prontamente gli sarebbe arrivata la mia richiesta d’intervista via mail. Mi disse che avrebbe risposto per iscritto e io ero al settimo cielo, tanto che gli “concessi” di prendersi tutto il tempo di cui aveva bisogno, immaginando che avrei dovuto aspettare almeno qualche settimana. Il giorno dopo l’intervista era pubblicata sul sito di Articolo 21. Perché Gianni era fatto così: non lesinava mai un consiglio, non si sottraeva mai a una discussione, non smetteva mai di parlare con i giovani, non se la tirava in nessun caso e, soprattutto, non ti negava mai un contatto quando glielo chiedevi, il che, con quell’agenda, capite bene che faceva la differenza. Chiedere a Minà era una garanzia, specie se ti prendeva a ben volere. E io a Gianni gliene volevo tanto. Gli volevo bene perché da lui e da altri giganti ho imparato che senza umanità questa professione non si può svolgere. Gli volevo bene perché ne ammiravo la semplicità, la spontaneità, il garbo e la gentilezza. Gli volevo bene perché era unico nel suo genere. Gli volevo bene perché Gianni non aveva interlocutori ma amici, con quel sorriso intenso, generoso e bellissimo che gli illuminava il viso. Era il solo che poteva permettersi di mettere intorno allo stesso tavolo Gabo Márquez, Muhammad Ali, Robert De Niro e Sergio Leone, peraltro poco prima che uscisse un capolavoro immortale come “C’era una volta in America”. Era il solo che poteva recarsi a intervistare Castro e tornare indietro con una conversazione interminabile che da sola vale una carriera. Era il solo che poteva abbracciare i fenomeni dello sport ed essere ricambiato dalla loro sincera stima: da Mennea a Maradona, passando per Marco Pantani, che soltanto di lui si fidò dopo l’ingiustizia atroce che aveva subito a Madonna di Campiglio.
Gianni aveva la lealtà del gentiluomo d’altri tempi e la purezza d’animo di un bambino. Sempre giornalista, mai giudice, non l’ho mai visto puntare il dito contro chicchessia, nemmeno quando era indignato, cosa che avveniva spesso, o aveva subito un sopruso intollerabile da parte di una politica e di un mondo del giornalismo il cui degrado è sotto gli occhi di chiunque.
Se fosse stato più furbo, meno schietto, più incline al compromesso, più freddo, meno coerente e magari anche disposto a vendersi, avrebbe egemonizzato il palinsesto dalla mattina alla sera. Già nel ’90, invece, era stato messo all’angolo dai baroni rampanti che facevano il bello e il cattivo tempo nel servizio pubblico, salvo poi riuscire a realizzare l’intervista che chiunque altro avrebbe voluto realizzare ma che solo a lui poteva riuscire: quella con Maradona al termine della semifinale del San Paolo fra Argentina e Italia, quando Diego disse a tutti gli altri di essersi recato lì unicamente per parlare con il suo amico Gianni. E quell’intervista, ovviamente, ebbe un’eco planetaria. Del resto, parliamo di un personaggio senza pari, capace di parlare con lo stesso rispetto con i grandi della Terra e con gli ultimi fra gli ultimi, di schierarsi dalla parte dei popoli sfruttati, del Sud America calpestato dall’imperialismo statunitense e di tutti i Sud del mondo. Aveva capito l’alterglobalismo con almeno un decennio d’anticipo, aveva stretto un rapporto di straordinaria complicità con il Subcomandante Marcos, aveva raccontato da par suo lo zapatismo e non aveva mai smesso di denunciare la prepotenza dei padroni del pianeta nei confronti di chi stava subendo gli squilibri e le storture di una globalizzazione senza regole e senza dignità.
Minà è stato amico di un attore immenso come Troisi, che solo con lui e pochi altri si apriva davvero, e ha girato il mondo in cerca di storie da raccontare, da partigiano della parola e della penna qual è sempre stato.
Ottantaquattro anni e un addio silenzioso, nello stile del personaggio, lasciando che a parlare fossero i ricordi e i frutti immensi del suo lavoro.
Per lui vale un celebre aforisma di Bertolt Brecht: “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”. Ora quel tavolo si è spostato lassù e sono di nuovo lui, Fidel, Diego… alla ricerca di un tempo che quaggiù, purtroppo, è andato perduto.

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