Bonsanti-Limiti: “Colpevoli. Gelli, Andreotti e la P2 visti da vicino”

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La scoperta non fu una sorpresa, era una piaga che già avevamo dentro di noi e spesso faceva male. Per anni, decenni, si è poi continuato a raccontare che c’era uno Stato, il nostro, e dei servitori infedeli, deviati. Quella definizione bastava a tracciare una linea di confine: di qua i fedeli, di là i deviati.

Mezzo secolo dopo (quando il Covid ci ha imposto di guardare bene al nostro passato prima di lasciare tutto, da un attimo all’altro, in eredità ad altre generazioni che ci avrebbero chiesto conto di cosa avessimo fatto dell’Italia libera che ci era stata consegnata), abbiamo avuto le conoscenze, i mezzi, le testimonianze per capire che quel confine non c’è. Il nostro Stato è proprio quello. Uno Stato deviato. Uno Stato infedele. Per essere più precisi, uno Stato fedele a quello che Gustavo Zagrebelsky ha chiamato «piduismo perenne». Ovvero «l’affermazione di una gerarchia pervertita e brutale di fattori della vita sociale: pervertimento nel quale i deboli hanno tutto da perdere».

I deboli sono soprattutto gli innocenti, le vittime dello Stato infedele. Sono i morti nei treni, nelle stazioni, per le strade della nostra Repubblica. I cittadini che non tornavano a casa la sera e lasciavano nel lutto e nel dolore famiglie distrutte. Sono magistrati, forze dell’ordine, servi fedeli di uno Stato infedele. Sono pagine di storia chiuse in fretta, senza verità.

Ma allora almeno che si sappia! Nell’ombra, nella nebbia, nel segreto che solo a tratti era consentito squarciare, sono cresciuti e hanno messo radici la deviazione e l’inganno. Norberto Bobbio e pochi altri maestri avevano intuito. Tornando indietro di due secoli, anche Giuseppe Mazzini si era posto il problema e aveva auspicato per l’Italia un futuro senza segreti.

Nel gennaio del 1995 con Maurizio De Luca e Corrado Stajano mettemmo insieme come primo numero delle edizioni di Libera di don Luigi Ciotti un dossier intitolato Il caso Mandalari. Nella premessa scrivevamo:

Quando, all’alba del 13 dicembre 1994, gli uomini della squadra mobile di Palermo hanno perquisito la casa e gli uffici di Giuseppe Mandalari hanno trovato di tutto: matrici di assegni e libri massonici, videocassette sulle elezioni del ’94 e un appunto con la scritta «scaletta per l’interrogatorio G.I. Giovanni Falcone»; tessere di riconoscimento della massoneria e biglietti di propaganda elettorale per Enrico La Loggia (oggi presidente dei senatori di Forza Italia), Giovanni Miccichè (sottosegretario ai Trasporti nel governo Berlusconi) e Silvio Berlusconi; fotocopie di atti della Commissione P2 […]. Uno spaccato molto eloquente, indicativo delle tante e complesse attività del ragionier Mandalari, cominciate agli inizi degli anni Settanta nell’amicizia e negli affari con i corleonesi, proseguite all’ombra delle logge massoniche e continuate fino a oggi.

Questo libro nasce dall’esigenza di trovare una risposta alla domanda: sarebbe stato possibile fermare il meccanismo del segreto prima che lo Stato diventasse uno Stato infedele? E, nel caso in cui la risposta fosse affermativa, allora chi sono i responsabili, se questo non è avvenuto? La responsabilità li trasforma automaticamente in colpevoli?

Purtroppo le cose non si capiscono, non si riconoscono, nel momento in cui accadono, ma tempo dopo. Raramente la comprensione di un fatto è immediata, a meno che non sia vissuta in diretta, che anche tu ne sia protagonista, e anche in questo caso non tutto è automatico. I personaggi protagonisti di questa storia erano molto esperti, attenti e pieni di risorse anche economiche. Questo libro non indica colpevoli con i loro nomi e cognomi, spesso si tratta di uomini che hanno avuto per tanti anni il potere e avrebbero potuto – sì, avrebbero potuto – fermare lo Stato deviato.

Questo libro vorrebbe che facessimo nostro un ammonimento lasciato sulla propria scrivania dal senatore repubblicano Giovanni Ferrara, che il 30 ottobre 1984 fu incaricato di intervenire in aula sul caso Andreotti-Sindona: «In Italia la libertà è abbastanza vecchia da essere dimenticata e troppo giovane per essere forte».

 

PREMESSA

 

Sono ancora tutti lì.
Tina Anselmi

 

La spinta a fare finalmente i conti con la storia dei poteri occulti mi è venuta durante i primi giorni della pandemia di Covid-19, leggendo un brano dei preziosi ricordi che un mio grande amico e grande giornalista, Luigi Bianchi, ha lasciato prima di andarsene.

Luigi aveva scritto una breve, preziosa cronaca di un suo incontro con Maria Angiolillo, vedova del fondatore de «Il Tempo», a quell’epoca curatrice delle relazioni pubbliche di Rizzoli e per questo diventata la più nota e informata padrona di casa della Roma politica.

Gigi, allora responsabile dell’ufficio romano del «Corriere», ricordava:

Una sera che ero andato da lei nella sua casa a Trinità dei Monti, mentre eravamo soli, forse per eccesso di vanità, mi confidò una notizia riservatissima. Mi disse con tono scherzoso: «Voi al giornale avete tutti paura di Tassan Din e invece Tassan Din è l’ultima ruota del carro. Quando si fanno le riunioni qui da me, Tassan Din, che di solito viene, è sempre rispettosissimo. Quando poi arriva un certo Ortolani, si genuflette. Se poi arriva un certo Calvi, tutti e due si mettono in ginocchio e, se viene anche Gelli, si genuflettono tutti. A meno che non partecipi anche Giulio, perché allora si stendono tutti come zerbini». Io sorrisi, feci l’indifferente, ma dentro di me passò un brivido.

Il mio amico si rese conto in quel preciso momento che dietro alle «bagatelle» del «Corriere» si nascondeva una vera «organizzazione che arrivava ai vertici della politica. E che era sicuramente pericolosa». Incominciò allora il suo sganciamento dal giornale.

Io e Gigi passeggiavamo spesso su una spiaggia tra la Toscana e il Lazio e il suo sguardo fendeva l’orizzonte, come cercasse una terra d’asilo. Più tardi la trovò in Sardegna e poi a Livorno, dove diresse «Il Tirreno» per un decennio. Ma non mi parlò della casa di Trinità dei Monti, me ne sarei ricordata. Non era un giornalista impaurito. Era un uomo che aveva intravisto un vero e proprio mostro e se ne voleva andare, più lontano possibile. Un diavolo?

Belzebù e Belfagor era il titolo del fondo di Bettino Craxi per l’«Avanti!» di domenica 31 maggio 1981. Una prima pagina dedicata anche all’Allarme per l’inflazione, e a un altro titolo a quattro colonne: Trovate le prove che Gelli faceva la spia per uno Stato estero? Ma quale? si chiedeva ancora il giornale.

Erano i giorni immediatamente successivi alla diffusione dei 962 nomi di iscritti alla loggia P2 trovati negli elenchi di Castiglion Fibocchi, la cittadina in provincia di Arezzo dov’erano gli uffici e la residenza di Licio Gelli. C’era tanta confusione nel mondo politico, paura per uno scandalo diverso dagli altri, per giuramenti inquietanti, per una Repubblica che stava traballando dalle fondamenta.

L’articolo di Craxi fu come un fulmine in un cielo tempestoso. «Chiamava Belfagor con nome e cognome: Licio Gelli» ha scritto nel 2019 Massimo Franco in C’era una volta Andreotti. «Ma non lo considerava l’onnipotente burattinaio dell’Italia degli anni Ottanta. Gelli era un burattinaio e insieme un burattino.»

Sull’«Avanti!» Craxi era stato meticoloso e perfido come voleva esserlo:

Tutto non può ragionevolmente essere ricondotto al dominio del Venerabile e inafferrabile Gran Maestro della loggia P2, accusato ora di reati gravissimi. Lo possiamo immaginare nel ruolo di un attivissimo arcidiavolo, un Belfagor dalle mille risorse, dai mille contatti, intese, dossiers, trappole e anche ricatti. Si cercherà di capire e conoscere meglio la sua storia, le sue relazioni interne e internazionali, l’itinerario della sua ascesa. A prima vista è apparso come un grand commis della organizzazione. Qualcuno ha detto in una intervista che Gelli è un uomo molto abile, una volpe ma non un capo.

Ecco dunque cosa Craxi aveva voluto dire fin dall’inizio, fin da quel titolo:

Insomma Belfagor resta una specie di segretario generale di Belzebù ma non è Belzebù.

Chi è allora Belzebù, secondo il segretario socialista? L’articolo continuava:

E se c’è Belzebù, ognuno allora se lo potrà immaginare adesso come meglio crede, sforzandosi di dargli una fisionomia, una struttura, un nome.

Massimo Franco ricorda che tutti gli uomini di Craxi dicevano apertamente che il segretario aveva chiamato in ballo Andreotti. Tanto più che, quasi in contemporanea con l’articolo dell’«Avanti!», Craxi si era preoccupato di far uscire su «Critica Sociale» la celebre (ma allora inedita) fotografia di Andreotti con Gelli il giorno dell’insediamento di Juan Domingo Perón alla presidenza della Repubblica a Buenos Aires, nel 1973. Uno accanto all’altro, Belzebù e Belfagor, sorridenti, impomatati e sornioni.

Chissà qual era l’obiettivo di Craxi e se fosse soltanto uno il messaggio che voleva arrivasse. Voleva che tutti ricordassero che non potevano pensare di escluderlo dai vari giochi di potere?

Certo è che un anno prima, esattamente il 5 ottobre 1980, il «Corriere della Sera» aveva dedicato la terza pagina alla famosa intervista di Maurizio Costanzo a Licio Gelli, nella quale il capo della P2 indicava Andreotti e Craxi come i soli politici in grado di salvare l’Italia: Giulio Andreotti al Quirinale e Bettino Craxi a Palazzo Chigi. Ma allora pochi sapevano della P2, gli elenchi sarebbero stati scoperti solo nel marzo successivo.

Dopo l’articolo di Craxi, Andreotti si era rifugiato nel silenzio. Forse aveva fatto qualche battuta. «Davvero Craxi pensa a me?» avrebbe detto agli amici secondo Massimo Franco. «Il Belzebù, se c’è, ha una giubba diversa dalla mia.»

La questione aveva affascinato anche Eugenio Scalfari, che su «la Repubblica» del 5 giugno 1981 rispose a Craxi: «Caro Craxi, tu lo sai chi è Belzebù». La sua analisi abbracciava un pezzo di storia italiana:

Belzebù è il quadro politico che dura da trentacinque anni e che ha reso possibile, al riparo della sua inamovibilità, fenomeni come la P2 e personaggi come Gelli-Belfagor.

Dunque, un Andreotti capo dello schieramento filoatlantico, uomo della destra democristiana che, da Sindona al Vaticano, proteggeva la politica amica della loggia, del Venerabile, della Sicilia sindoniana, e tutto il resto che si portava dietro, comprese le alleanze d’oltreoceano. Queste cose Scalfari le conosceva, come le conoscevano Craxi e un pezzo del suo partito.

Non si può dire nemmeno che il segretario socialista e Belfagor non si conoscessero. L’incontro riservatissimo era avvenuto alla fine degli anni Settanta, quando Vanni Nisticò, capo ufficio stampa del Psi e iscritto alla P2, aveva accompagnato Gelli all’Hotel Raphaël. Gelli aveva fatto un’eccezione, di solito infatti erano gli altri ad andare a trovarlo. Comunque i due furono lasciati soli e, quando riaccompagnò il Venerabile all’Hotel Excelsior, Nisticò fu informato che il cuore del colloquio era stata la necessità che Craxi e Andreotti siglassero una tregua.

Poi Craxi e Gelli si erano rivisti a casa di Claudio Martelli per discutere di petrolio e di altri interessi di Gelli: la grande riforma per cancellare la Costituzione del ’48 e introdurre l’elezione diretta del presidente della Repubblica, insieme ad altre pesanti innovazioni riguardanti la giustizia. Dicevano che la nostra Costituzione «è un abito un po’ liso». Frase felice, se fu fatta propria anche da Silvio Berlusconi, «fratello» piduista.

Intanto Craxi aveva trovato una buona occasione per mostrare al mondo e a Gelli-Belfagor i sentimenti che lo animavano. Era infatti arrivato il momento di un governo Craxi, e il 4 agosto 1983 andava in Parlamento a vararlo. Noi giornalisti lo incontrammo sul portone di Montecitorio e sbigottiti ascoltammo la sua prima dichiarazione: «Adesso questa storia della P2 è morta e sepolta». Una frase tanto netta a sostegno del potere occulto non l’aveva mai detta nessuno. Fatto sta che, pochi giorni dopo la nascita del nuovo governo, Gelli, allora ospite di un carcere svizzero vicino a Ginevra, fuggì. Un giorno avrebbe raccontato: «Non trovai nessuna porta chiusa».

Sulle ultime ore della Commissione Anselmi, e l’approvazione in Parlamento delle conclusioni, vigilò fino al giugno del 1985 il capo dello Stato Sandro Pertini. Poi al Colle arrivarono gli anni di Francesco Cossiga: un’altra storia, altri amici, altre alleanze. Pertini non aveva mai voluto stringere la mano agli uomini della P2, Cossiga pensava che molti di essi fossero dei galantuomini.

Belzebù e Belfagor continuarono a inseguirsi, amarsi, odiarsi. Presi ognuno dalla grande storia d’Italia, fatta anche di mafia e affari, criminalità e potere, aule di tribunali e corruzione, che travolse entrambi, lasciando tante vittime sul loro cammino. Il secolo XX volgeva al tramonto, col suo carico di drammi umani e di ferite alla democrazia.

Oggi non posso pensare a quel tempo senza imbattermi nell’immagine di Bruno Tassan Din, Umberto Ortolani, Roberto Calvi e Gelli stesi come zerbini quando arrivava, nel salotto di Maria Angiolillo, Giulio Andreotti-Belzebù. E capisco il brivido provato da Luigi Bianchi, un giornalista, una persona perbene, un cittadino italiano.

Lo stesso brivido provai io nel gennaio del 2019 durante un seminario sul potere occulto che si tenne a Firenze. Avevamo invitato a parlare, sui documenti ora all’Archivio di Stato relativi al processo Pecorelli, Davide Vecchi. Fra le altre cose che aveva appena intravisto in quel mare di carte, Vecchi accennò a un’agenda. Un’agenda sequestrata ad Andreotti, sulla quale per una settimana l’onorevole aveva segnato gli appuntamenti telefonici con Gelli. Andreotti era a New York e Gelli in Italia. Se quel documento era autentico, allora si trattava di una conferma che la versione sfoderata da Belzebù per tutta la vita, e cioè che lui Gelli lo conosceva poco e comunque soltanto nella sua veste di incaricato d’affari dell’Ambasciata argentina a Roma, non era vera. Si erano conosciuti e frequentati, il che non è certo un reato, ma soltanto un enigma: che genere di sodalizio poteva essere stato quello fra il più importante e potente uomo politico del dopoguerra e il Gran Maestro di una loggia segreta della massoneria? E perché Andreotti aveva sempre negato, sempre minimizzato, anche quando era stato interrogato dalla Commissione Anselmi?

Quella domanda era un tormento. Nella mia vita di giornalista avevo spesso incontrato il leader democristiano, e non avere una risposta, un’idea chiara su quella faccenda mi impediva di chiudere i conti. Di dire a me stessa: il mio lavoro di cronista ha avuto un senso, ho raccontato tutto quello che sapevo e che era importante per la ricostruzione della storia d’Italia.

In sostanza, o Gelli non era Gelli, capo di una pericolosa loggia segreta direttamente o indirettamente coinvolta in tanti misteri dell’Italia eversiva, attentati, stragi, mafia, e allora Andreotti poteva legittimamente avere avuto a che fare con lui; oppure «la prima lettera dell’alfabeto» (come – mi disse l’allora segretario Dc Flaminio Piccoli – lo chiamava il vertice democristiano) era un uomo profondamente coinvolto, compromesso con l’Italia peggiore del nostro dopoguerra.

Un dilemma forse inestricabile, chissà, ma per me è arrivata l’ora di liberarmi di questo tormento.


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