Il corporativismo: minaccia mortale per la libertà di informare

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Per una sorta di ‘galateo istituzionale’, di fair play, mi sarei aspettato che Giorgia Meloni, diventata Presidente del Consiglio, avrebbe ritirato la querela contro Roberto Saviano. Questo perché, trasformata da capo partito – come era all’epoca della nascita della diatriba con Saviano – nella rappresentante di una delle più alte cariche istituzionali del Paese, pardon, della Nazione, avrebbe dato un segnale significativo di coscienza del nuovo ruolo.
Così non è stato e ne consegue che anche questa querela si aggiunge alle altre che tentano di mettere il bavaglio ad una delle più forti voci critiche dell’Italietta e, per il suo tramite, all’intero lavoro indipendente, autonomo dei giornalisti. Come rispondere? Come reagire?
Alle minacce fisiche di mafia, ‘ndrangheta, criminalità organizzata – comunque si chiami -, lo Stato tenta di porre un argine assegnando delle scorte di forze dell’ordine a chi le subisce. Contro le querele, tantissime volte temerarie, che minacciano la libertà di espressione, la possibilità di andare a fondo nelle inchieste e nella ricostruzione degli episodi più oscuri della nostra storia, come possiamo difenderci? Abbiamo un’unica arma: il nostro codice deontologico costruito sull’attenzione verso la società, la solidarietà, il diritto-dovere di informare come sancito dall’Articolo 21 della Carta Costituzionale.
Articolo, quindi, che non è un appello ai buoni sentimenti, ma indica una strada precisa per il nostro lavoro. L’esatto opposto delle pulsioni corporative che periodicamente ricompaiono, in particolare – bisogna sottolinearlo – quando la situazione politica del Paese si sposta a destra. Corporativismo che rischia di diventare la pietra tombale della professione, primo presidio di tutela democratica. Questo perché qualunque potere cercherà di accontentare gli egoismi di categoria, ponendo quella condizione che purtroppo si è letta nei giorni scorsi in qualche scellerato documento: prima di guardare all’esterno, occupiamoci di noi, della nostra professione.
Diventeremo tutti trombettieri del re di turno? Ma a che serviremo, visto lo stuolo abbondante di portavoce, portaborse, velinari. E chi sarà in grado di leggere tra le righe dei comunicati degli uffici stampa? La difesa delle professione, quella vera, va nella direzione esattamente opposta rispetto a quella indicata dai corporativi: quanto più saremo in grado di raccontare le disuguaglianze, di denunciare i privilegi e le truffe, di essere i testimoni dell’immenso popolo che non ha voce, di sbattere in faccia al potere la miseria crescente di un Paese che orgogliosamente si vanta di essere tra i più industrializzati del mondo (il più delle volte sulla pelle di milioni di precari, sfruttati, lavoratori in nero), le discriminazioni di genere, tanto più saremo in grado di affermare l’insostituibilità del nostro ruolo. Altrimenti sarà la fine.


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