Eugenio Scalfari, l’azionista che cambiò il giornalismo

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Eugenio Scalfari non era un tipo semplice. Profondo, profondissimo, dotato di pensieri lunghi e analisi interminabili, ha attraversato da protagonista un secolo di storia. Se ne va a novantotto anni, dopo aver conosciuto da vicino il fascismo, la Resistenza, il referendum fra monarchia e repubblica, il dopoguerra e tutte le altre vicende che, in molti casi, ha contribuito anche a determinare o, quanto meno, a orientare in maniera decisiva. Scalfari, infatti, è stato uno dei primi a concepire il giornalismo non come una mera forma di racconto di ciò che accade ma come un esercizio di battaglia politica, una palestra di idee, un corpo a corpo col potere in cui la terzietà non solo non era gradita ma era, al contrario, ritenuta dannosa.
Classe 1924, vicino al Partito d’Azione, liberale, figlio della stagione in cui gli intellettuali della borghesia romana si ritrovavano la sera in via Veneto, era un esponente del Mondo di Pannunzio e di una certa élite radicale, la stessa cui apparteneva Stefano Rodotà, desiderosa di mettere in discussione la contrapposizione asfittica fra Partito comunista e Democrazia Cristiana. L’Espresso, nato nel ’55 grazie al sostegno di due personalità atipiche dell’imprenditoria italiana come il principe Caracciolo e Adriano Olivetti, è stato una magnifica nave  corsara, un vascello che ha accompagnato la mutazione del Paese, il suo passaggio da nazione agricola a potenza industriale, negli anni di un boom con molte luci e altrettante ombre e dell’affermarsi della generazione che aveva venti-trent’anni nei giorni dell’arrivo del benessere e della speranza. Attento alle ragioni della politica e dell’economia, vicino al centro-sinistra, che in via Po 12 ebbe a lungo il suo cuore pulsante, non esitò a denunciare gli scandali che scossero gli anni Sessanta, su tutti il Piano Solo, quando proprio Scalfari, insieme a Lino Jannuzzi, rese noto il coinvolgimento del SIFAR.
Dopo che Moro aveva posto il segreto di Stato su molti nomi, Scalfari rischiò l’arresto, salvandosi solo grazie alla candidatura nelle file del PSU (Partito Socialista Unitario) alle elezioni del ’68. Rimase, tuttavia, in Parlamento per una sola legislatura perché poi tornò al primo amore, il più importante della sua vita, combattendo in prima linea le battaglie degli anni Settanta per la modernizzazione del Paese: divorzio, aborto e diritti sociali e civili. Il 14 gennaio del ’76 arrivò Repubblica, fondata, ironia della sorte, da un uomo che nel ’46 aveva scelto la monarchia, temendo, non proprio a torto, che un’affermazione della repubblica avrebbe favorito le ingerenze e lo strapotere del Vaticano nella vita politica. Il formato tabloid, l’irriverenza, la perfetta mescolanza fra apocalittici e integrati, l’attenzione ai movimenti e a tutto ciò che si agitava in una società irrequieta e squassata dagli Anni di piombo furono le caratteristiche vincenti di un progetto editoriale che decollò nei giorni tragici del sequestro Moro e fu protagonista, nel decennio successivo, della battaglia contro il potere craxiano, in favore dell’incontro fra il cattolicesimo democratico di De Mita e la via italiana al socialismo di Enrico Berlinguer. E fu proprio a Scalfari che Berlinguer consegnò una memorabile intervista sulla crisi dei partiti e il declino della politica, tuttora considerata un appello, un monito, un punto di riferimento per coloro che sognano un’altra idea di società.
Ha avuto un ruolo di primo piano anche nella stagione dell’Ulivo, dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, sostenendo da vicino l’incontro fra le culture storiche del Novecento e proponendone una fusione che, però, non ha funzionato. Indimenticabili le sfide lanciate al già menzionato Craxi, ad Andreotti, a Berlusconi, a D’Alema, il convinto sostegno a Prodi e l’impegno attivo, rivendicato ed esibito, di un quotidiano che non si è mai limitato a essere un organo d’informazione, desiderando, all’opposto, incidere nelle vene della società e contribuire a cambiarla. La cifra politica, morale e giornalistica di Scalfari è stata la fusione dei linguaggi, l’incontro di mondi diversi, la ricomposizione delle tessere di un mosaico complesso e in costante evoluzione. Tralasciamo, per carità di patria, gli ultimi anni della sua creatura, non diciamo mezza parola sull’attualità e ci concentriamo, invece, sul suo rapporto spirituale con papa Francesco, l’ultimo grande incontro di un esploratore prestato alla parola, di un uomo capa e di andare al di là di se stesso e delle proprie convinzioni e di riflettere sull’essere umano e sul destino in termini prevalentemente filosofici. Del resto, a Sanremo, da ragazzo, era stato compagno di banco di Italo Calvino: un’amicizia che lo ha influenzato per tutta la vita e che ricordava con orgoglio.
Scalfari è stato anche colmo di contraddizioni, a cominciare dall’ammissione di essere stato, in gioventù, fascista per mancanza di conoscenza e indottrinamento. Non sempre mi ha convinto, specie negli ultimi anni, e possiamo dire che ha vissuto la stagione del tramonto come un patriarca in disarmo, un generale ormai senza truppe, un imperatore deposto ma non arreso, in grado di reinventarsi e combattere ancora con le armi della cultura e della conoscenza.

Se ne va un personaggio scomodo, disilluso, intenso, una sorta di monumento già in vita di cui ora si potrà ragionare più serenamente, rielaborandone gli scritti e analizzandone la personalità. Merita una menzione anche il fatto che se ne sia andato il 14 luglio, a coronamento di un’avventura umana spesa in gran parte in nome dell’illuminismo. Ha conosciuto innumerevoli stagioni e le ha attraversate tutte a testa alta. Solo per questo merita un sentito grazie. Al resto provvederà la storia.

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