La resistenza dimenticata e il contributo femminile alla Liberazione

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Quando scoppiò la seconda guerra mondiale in Italia, le donne erano ancora “cittadine imperfette“.

Spesso erano analfabete, perché non si pensava fosse importante farle studiare, vivendo private dei diritti politici e di alcune fondamentali prerogative civili.

Dovevano restare sempre in casa ed essere sottomesse all’uomo di riferimento, prima il padre e poi il marito, e non potevano decidere neppure come vestirsi, perché indossare abiti sgargianti o truccarsi sarebbe valsa una lettera scarlatta indosso, accettando mute le dure condizioni di vita che venivano loro imposte sia nel contesto familiare che nell’unico ambito occupazionale loro permesso, ovvero nel lavoro delle campagne e nelle fabbriche.

Alle donne dell’epoca veniva riconosciuto un senso, che non può definirsi valore, solo per la capacità riproduttiva, tanto che se non si sposavano, erano considerate quasi una iattura per la famiglia di origine.

Ma la figura femminile cambiò proprio con la guerra, quando l’uomo partì per andare a combattere e la donna dovette assumere un ruolo necessariamente diverso.

Sin dalla seconda guerra d’indipendenza, furono le donne di Castiglion delle Stiviere a raccogliere l’insano invito di Henry Dunant a voler prestare assistenza umanitaria a tutti i soldati feriti e lasciati sul campo, senza fare distinzione alcuna rispetto all’esercito di appartenenza.

Il resoconto narrativo sulla nascita del movimento umanitario più grande della storia si chiude con una frase che Henry Dunant, ideatore della Croce Rossa e premio Nobel per la Pace, fece pronunciare nel suo “Souvenir di Solferino” alle donne italiane che accettano di aiutarlo: “Tutti fratelli”.

Ancor più significativo fu il ruolo della donna durante la Prima Guerra mondiale, costretta per gli anni della trincea a sostituirsi all’uomo ed assumere le vesti di capofamiglia, affrontando lavori socialmente ancora inaccettabili perché svolti fuori casa o a contatto con estranei.

Il fascismo in apparenza sembrò voler modernizzare il paese, consentendo alle bambine di fare sport e di iscriversi alle scuole o alle colonie marine, ma nel contempo emanò leggi incivili mediante le quali fu vietato alle donne di svolgere professioni come l’avvocato o il giudice, persino di essere docenti di storia e filosofia nelle scuole superiori.

La donna poteva al massimo aspirare a fare la maestra oppure, come costantemente propagandata, ad essere una “massaia rurale“, ovvero una brava “madre prolifica“.

Dunque il 10 giugno 1940, quando Mussolini dichiarò l’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra mondiale, iniziò per la donna italiana la dolorosa sventura di reperire ogni giorno cibo sufficiente per i figli, nel tentativo di proteggerli dagli orrori di un conflitto che per la prima volta coinvolse in prima persona i civili.

La guerra non vide più delineato con precisione il suo fronte, e dopo l’8 settembre, la vita si trasformò in un quotidiano incubo, con gli orrori della feroce occupazione nazista ed i continui bombardamenti sulle città.

Le donne allora si trasformarono in “resistenti”, reagendo in prima persona alla fame ed alle bombe, nel perenne intento di sopravvivere con la propria famiglia.

Esasperate dalle condizioni indicibili nelle quali erano ridotte con i propri figli, le donne italiane iniziarono a manifestare pubblicamente, spesso pagando con la vita il loro coraggio, come il 7 aprile 1044, quando dieci madri insorsero contro il potere reclamando il pane e furono trucidate sul capitolino Ponte di Ferro, o come Maria Zanotti, uccisa ad Imola il 1 maggio 1944 quando scioperò per le inaccettabili condizioni di lavoro che venivano imposte, o come Maria Bocchi, detta Kitty, partigiana di Parma che con alcune sue amiche si pose a protezione di un muratore che stava scavando un varco alla recisione della Caserma di Piazzale Santo Fiore per consentire la fuga ai prigionieri mentre stavano arrivando i nazisti ad ucciderli.

Dozzine di storie di donne che fecero la resistenza in Italia, ma che non vennero mai sufficientemente ricordate.

Eppure le donne italiane furono fondamentali per la lotta contro il nazifascismo, perché rimasero sempre in prima linea, resistendo per riconquistare la libertà e la giustizia del proprio paese e ricoprendo funzioni di primaria importanza.

Ovunque si impegnarono ogni giorno per reperire beni di vitale necessità alla sopravvivenza della famiglia, ma anche al sostentamento di chi aveva deciso di entrare nei gruppi partigiani, e spesso trasportarono risorse ed informazioni proprio perché furono sempre considerate avvantaggiate dal loro stesso genere.

Gruppi organizzati femminili organizzarono la propaganda antifascista, raccolsero fondi e assistettero i prigionieri di guerra, garantendo le comunicazioni, anche quelle militari necessarie ai fini operativi.

Nacquero i Gruppi di Azione Patriottica (GAP), le Squadre di Azione Patriottica (SAP) e soprattutto i Gruppi di difesa della donna: “aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica o religiosa, che volessero partecipare all’opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione“.

Essere resistenti durante la guerra per le italiane significò comunque “combattere”, sebbene con modalità diverse da quelle tipicamente belliche, tuttavia questa diversità invece di farle valorizzare all’opinione pubblica, le relegò ingiustamente ad una considerazione di minore importanza.

Eppure, essere coinvolta in una guerra per una donna ha sempre implicato dover pagare doppiamente il proprio genere sessuale: sostenendo una doppia vita quando  partecipa direttamente alle ostilità, oppure affrontando situazioni di grave pericolo mediante altre strategie come l’attitudine materna, la seduzione, la persuasione e la capacità di mediazione, utilizzando armi diverse da quelle convenzionali e spesso alquanto spiacevoli pur di raggiungere uno scopo prefissato, che fosse salvarsi la vita o salvarla a chi gli era accanto.

Durante la seconda guerra mondiale le donne, specie le più giovani, assunsero la pericolosa funzione di staffette, sempre non armate e in sella alla bicicletta o a bordo di bus e camion da trasporto, recando informazioni e notizie, trasportando armi e munizioni, e quando l’unità partigiana stava per sopraggiungere in un abitato, facendo da sentinelle o da “incursori” per verificare che non ci fossero nemici e dare così il via libera.

Si presunse sempre infatti che le donne fossero meno sospettate e non venissero di conseguenza perquisite o arrestate, riuscendo così a garantire le comunicazioni tra le varie brigate partigiane e mantenendo i contatti con le famiglie, persino fungendo in alcune occasioni da infermiere, quando fecero da collegamento con i medici o i farmacisti per curare chi si doveva nascondere.

Tante presero parte attivamente a scontri a fuoco contro i nazifascisti, come per quanto riguarda il 1º distaccamento di donne combattenti, fondato in Piemonte alla metà del 1944 presso la Brigata garibaldina “Eusebio Giambone”, cui fece seguito un altro raggruppamento a Genova e nel 1944 uno ulteriore nel Biellese, composto da operaie tessili della Brigata “Nedo”.

Utilizzando le armi, le donne entrarono per necessità e all’improvviso in un contesto esclusivamente fino allora maschile e lo fecero senza velleità di rivendicazione, ma per autentico patriottismo e valore umano, mettendo di continuo a rischio la loro vita e quella dei loro familiari.

Soprattutto, furono di continuo sostegno morale all’interno dei gruppi partigiani, imprescindibile in quei momenti di terribile disorientamento, ed alcune rimasero come punto di riferimento anche dopo la fine della guerra, come Nilde Iotti, partigiana che dopo il Referendum del 2 giugno del 1946 venne eletta deputata e poi componente dell’Assemblea Costituente, all’interno della quale contribuì a creare l’articolo 3 della Costituzione italiana in cui si proclama il principio di l’uguaglianza di tutti i cittadini.

Questo fattivo dinamismo fra i doveri della famiglia e le responsabilità connesse alla guerra, condusse le donne italiane ad una nuova identità di genere assunta dall’oggi al domani con una versatilità tipicamente femminile ed in modo naturale, quasi nella consapevolezza che non stessero compiendo qualcosa di  straordinario.

Ed ecco forse la ragione per cui le protagoniste femminili della guerra compaiono poco nei libri e gli storici ufficiali spesso hanno dimenticato le loro azioni nella Resistenza, menzionando in alcune narrazioni solo le eroine e le martiri.

Matilde Bassani Finzi, ebrea e partigiana, continuò a lottare anche dopo la fine della guerra per ottenere il riconoscimento della propria esperienza, raccontata persino da Radio Londra durante un programma intitolato “Insegnante Combattente”.

Figlia di antifascisti ebrei di Ferrara, amica di Norberto Bobbio e Concetto Marchesi, venne arrestata per la sua militanza l’11 giugno 1943 e rimase in carcere fino all’armistizio per poi trasferirsi a Roma, dove contribuì alla creazione del Comando Partigiano Superiore, occupandosi del Servizio di Informazioni e collaborando con l’Intelligence americana dell’OSS, nonché distribuendo armi e salvando prigionieri di guerra stranieri.

Ma fece anche altro, quando a rischio della deportazione trattò con le SS per il rilascio del Capitano Aladino Govoni, che poi purtroppo venne assassinato alle Fosse Ardeatine.

Lei stessa venne ferita a fuoco durante un’operazione, ma volle ugualmente partecipare poco dopo alla liberazione di Firenze, trasportando personalmente armi alla brigata Bruno Buozzi.

Ebbene, nel 1948 a guerra finita Matilde dovette presentare ricorso alle istituzioni preposte per vedersi riconoscere il titolo di partigiana combattente.

Oggi non può più disconoscersi il determinante ruolo che le donne hanno rivestito durante tutta la guerra e nei movimenti della Resistenza: organizzarono squadre di primo soccorso per aiutare feriti e ammalati, promossero raccolte di indumenti, cibo e medicinali, si occuparono persino dell’identificazione dei cadaveri e dell’assistenza ai familiari dei soldati deceduti o disperi al fronte.

Quello che le donne fecero in guerra era pericoloso esattamente come il ruolo dei colleghi combattenti, ma quando cadevano in mano nemica è storicamente noto che subirono le più atroci torture, gli stupri e le violenze più efferate.

Fra tutte va ricordata Stefanina Moro, staffetta partigiana di 16 anni che venne catturata, violentata e torturata a morte dai nazifascisti.

Va parimenti ricordata Iris Versari, che nel 1943 divenne staffetta e l’anno successivo iniziò a combattere, venendo ferita nell’agosto del 1944 e rifugiandosi in una cascina dove fu scoperta dai nazisti.

Impossibilitata a muoversi, ordinò ai compagni di fuggire e, sapendo il trattamento che le avrebbero riservato i nemici, si tolse la vita.

Il suo cadavere venne oltraggiato ed appeso in Piazza Saffi a Forlì con altri partigiani assassinati, unitamente ai quali venne decorata della medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Va ancora ricordata Irma Bandiera, staffetta nella 7ª G.A.P, che divenne combattente con nome di “Mimma” e venne arrestata dai nazifascisti mentre stava tornando a casa da Castel Maggiore, dove aveva consegnato armi e documenti.

Per sei giorni fu torturata fino ad essere accecata, ma Irma non rivelò i nomi dei suoi compagni e così venne fucilata sulla collina di San Luca.

Una menzione infine ad Alma Vivoda, uccisa il 28 giugno 1943 durante una missione alla Rotonda del Boschetto (Trieste) e prima caduta nella Guerra di Resistenza in Italia.

Quando si parla di donne nella guerra ed in particolare nel secondo conflitto mondiale e nella Resistenza, oltre all’espressione della tradizionale e ben nota “lotta armata”, devono per forza aggiungersi tutte le attività di Resistenza civile e di Lotta non armata delle protagoniste femminili.

Il contributo femminile alla guerra non prescinde mai dal genere, anzi lo amplifica, spesso vi si fonda e molto spesso lo sfrutta, anche purtroppo con i peggiori esiti.

La donna in guerra ha dovuto trasformarsi di continuo ed adattarsi sempre, con una perenne ribellione alle ingiustizie, anche non armata ma ugualmente pericolosa, che si unisce alla capacità di resilienza femminile.

Ricordare questa unicità  delle donne in guerra rende giustizia alle tante combattenti e tante resistenti il cui sacrificio è stato e continua spesso ad essere dimenticato.


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