La dignità di Sergio Mattarella

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“Dignità” è la parola che Sergio Mattarella ha fatto risuonare più volte in un’aula della Camera che mai come in occasione del nuovo discorso di insediamento del capo dello Stato ha trasmesso una brutta sensazione di ipocrisia. L’ipocrisia dei colpevoli, l’ipocrisia dei distanti, l’ipocrisia di un ceto politico che purtroppo, dopo sedici anni di leggi elettorali che impediscono ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti, non rappresenta più nessuno. Non è un caso se gli enti locali, per cui ancora possiamo scegliere consiglieri, sindaci e presidenti, godono di un consenso di gran lunga superiore rispetto a Camere che alla maggior parte dei cittadini appaiono lontane e autoreferenziali, e ahinoi lo sono.
“Dignità”, dunque: il valore supremo della Costituzione, il cardine del nostro stare insieme, il caposaldo della Resistenza e del nostro vivere civile, la caratteristica che innerva i primi dodici articoli della Carta e il principio basilare che fu alla base del patto stipulato all’Assemblea Costituente da partiti che si sarebbero combattuti in maniera molto aspra per decenni ma sempre conservando un fondamento comune in cui quasi tutti si riconoscevano (e chi non vi si riconosceva, all’epoca, era considerato fuori dall’arco costituzionale).
“Dignità” per studenti, operai e lavoratori in generale; “dignità” dell’informazione”; “dignità” dei migranti, degli ultimi e degli esclusi; “dignità” della magistratura; dignità come concetto portante e ideale da perseguire collettivamente per non essere sopraffatti dalla barbarie che avanza ovunque nel mondo.
Il problema, e occorre un minimo di onestà intellettuale nel riconoscerlo, è che Mattarella era uno dei pochi, là dentro, a credere davvero in quei concetti altissimi e nobili, degni dei padri costituenti e in grado di costruire ponti anziché muri. Non diciamo l’unico perché non sarebbe giusto, ma che questa classe dirigente abbia compreso fino in fondo la portata delle parole del Capo dello Stato è falso e sostenere il contrario vorrebbe dire mentire a noi stessi e a chi ci legge.
Spiace dover prendere atto che questo mondo politico non abbia, complessivamente, il senso di responsabilità che sarebbe necessario in una fase così delicata della nostra vita pubblica. Spiace dover prendere atto che ad applaudire Mattarella siano gli stessi che hanno votato e difeso per anni leggi elettorali incostituzionali, norme che hanno affossato la sanità e la scuola pubblica, fautori del massacro del mondo del lavoro, illustri guerrafondai, personaggi divisivi che più divisivi non si può, liberisti incalliti che hanno denigrato, in ogni singolo atto, i valori costituzionali e soggetti che nel 2001 difesero l’operato degli agenti che fecero irruzione alla Diaz e adesso non battono ciglio di fronte alle ragazze e ai ragazzi presi a manganellate in piazza mentre manifestavano contro l’alternanza scuola-lavoro e per un’altra idea di società e di futuro.
Bando all’ipocrisia, per favore. Non possono ergersi a difensori della dignità costituzionale gli stessi che sognavano un presidenzialismo di fatto, sancito dall’ascesa di Draghi al Quirinale, principe governante anziché garante della Costituzione. Con tutto il rispetto per Draghi, sarebbe stata una riforma sostanziale della Carta senza seguire la procedura prevista dall’articolo 138, compreso un eventuale referendum popolare. Non possono applaudire il discorso di Mattarella nemmeno coloro che volevano smantellare la Costituzione nel 2006 e minarne lo spirito nel 2016. Non possono farlo coloro che non hanno chiesto con il dovuto vigore una commissione d’inchiesta per i fatti di Genova. Non possono farlo i sostenitori di un’alleanza strutturale con chi della dignità, in tutte le sue forme, dalla scuola ai migranti, diciamo che non se n’è mai preoccupato granchè, per usare eufemismo, E non possono farlo nemmeno coloro che, di fronte a tutto questo, e qui mi riferisco a buona parte della nostra categoria, è rimasto in silenzio. Perché il passaggio sulla libertà e il ruolo dell’informazione, da sempre faro dell’azione politica di Mattarella, fin da quando si dimise da ministro della Pubblica Istruzione del sesto governo Andreotti in opposizione alla legge Mammì, non è secondario nel contesto di un discorso che ha posto in evidenza le innumerevoli falle di un sistema Paese imballato e incapace di risollevarsi. Infine, un pensiero alla magistratura. Negli ultimi mesi ho conosciuto magistrate e magistrati che mi hanno restituito fiducia e addirittura entusiasmo nei confronti di un potere fondamentale dello Stato. È per loro e con loro che bisogna riformare quell’ambito, non certo sostenendo referendum che hanno come obiettivo non dichiarato ma evidente un ulteriore indebolimento della magistratura; o, per meglio dire, di una certa magistratura, quella che sempre difeso la forza del diritto e contrastato il diritto della forza, pagando per questo un prezzo altissimo, a cominciare dalle accuse sguaiate di alcuni dei personaggi che lo scorso 3 febbraio si spellavano le mani, ignorando scientemente l’atto d’accusa che quel galantuomo stava formulando nei loro confronti.
In poche parole, il discorso di Mattarella, in quell’aula, poteva permettersi di applaudirlo quasi solo Mattarella, il quale ha cercato, ancora una volta, di indicare la strada a persone che, per dirla con Moro, da anni governano lo sfascio del Paese e finiranno con l’affondare con esso.

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