Edith Bruck, Il pane perduto e il pane della memoria

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“Tanto tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde ballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no”. Comincia come una fiaba “Il pane perduto” di Edith Bruck, La nave di Teseo 2021, e le prime trenta pagine procedono con toni favolistici in un andamento quasi fuori del tempo e nello spazio eterno, assoluto del villaggio natale, quasi un quadro di Chagall; raccontano la vita della tredicenne Dikte, ultima di sei figli in una famiglia poverissima in Ungheria: la madre, il padre, i fratelli, le amiche, la pazza Jaja, la scuola, i suoi successi scolastici e le sue ribellioni. Ma nel villaggio aleggia qualcosa di inquietante, che si manifesta in saluti negati, nei canti razzisti di certi ragazzi, cui Dikte si rivolta, negli insulti agli ebrei che si recano in sinagoga, nella paura dei grandi, celata ai figli con una serie di proibizioni di muoversi e giocare nel villaggio, per proteggerli. “Anche il Natale sembra aver fretta di arrivare e le grida dei maiali sotto i coltellacci erano come un allarme di dolore universale, insopportabile all’udito”. Nella storia è importante la percezione del tempo e nella narrazione il passaggio dalla terza alla prima persona a pag 31 segna l’irrompere della tragedia nella vita di Dikte e nella sua percezione della temporalità. Dopo Natale i gendarmi ungheresi irrompono nelle case degli ebrei e li trasferiscono nel ghetto di Budapest. Durante il viaggio in treno la protagonista prende coscienza di un passaggio, esce dallo spazio e dal tempo dell’infanzia: “nessuno avrebbe potuto dire se il viaggio stesse durando molto o poco, il tempo reale, come la mia infanzia, era sparito e quello interiore ciascuno lo viveva solo secondo i propri sensi. Io volevo tornare nella pancia della mamma e non nascere mai più”. Era il 1944 e il padre confidava nella fine del nazifascismo e nell’arrivo dei liberatori russi, ma dopo poco “il ghetto viene invaso da stormi di corvi neri, armati, con sembianze umane” e vengono deportati a Birkenau e poi ad Auschwitz. Tutto avviene “ con la velocità della luce” e non c’è tempo né per piangere, né per parlare e “il nostro villaggio ci sembrava già lontano, in un altrove … Quel nostro mondo era finito, un luogo di favola nel bene e nel male”.

Con una scrittura poetica molto sintetica e fulminanti descrizioni di sentimenti e situazioni – “Mamma e papà sono invecchiati di colpo a quarantotto anni. E noi figli di colpo eravamo già genitori dei nostri genitori”- Edith Bruck ci racconta l’arrivo al campo, la selezione, la spogliazione, il numero e la perdita del nome e tutto il calvario che abbiamo letto in modo più esteso in altre testimonianze. Dikte e la sorella Judith resteranno insieme e insieme dovranno capire le regole e i trucchi per la sopravvivenza, affrontare la fame e la paura, i numerosi spostamenti e la marcia della morte, mentre il tempo, in circostanze estreme, non era più reale, né calcolabile: “Erano passati tre mesi o tre anni? Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto si moriva: chi per la selezione, chi per l’appello, chi per la fame, chi per malattie, chi, come Eva, suicida, fulminata dalla corrente del filo spinato, rimanendo a lungo appesa come Cristo sulla croce”. Da Auschwitz, a Dachau, a Kaufering, Bergen Belsen, Kristianstadt e di nuovo a Bergen Belsen lottano per sopravvivere, raccolgono l’ultimo sospiro dei moribondi: “Racconta, non ci crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi”. Sopravviveranno, grazie al forte attaccamento alla vita e a qualche “miracolo” e il 16 aprile verranno finalmente liberate. Inizierà allora l’avventura non facile del ritorno di Dikte e Judith: incontreranno la diffidenza e la freddezza di chi non ha conosciuto l’esperienza dei campi, prenderanno coscienza definitivamente della perdita dei genitori e di un fratello, vedranno la devastazione del villaggio e della loro casa. Le due ragazze dovranno affrontare la decisone di come ricostruire la loro vita e le loro strade si divideranno: Judith partirà per la Palestina, ma Dikte vuole restare libera, lei che sente di essersi “partorita da sola in un anno di travaglio”, che non crede nemmeno nella Terra Promessa dopo la delusione del ritorno, ma intravede la sua vocazione: “Le nostre vere sorelle e fratelli sono quelli dei lager. Gli altri non ci capiscono, pensano che la nostra fame, le nostre sofferenze equivalgano alle loro. Non vogliono ascoltarci; è per questo che io parlerò alla carta … Sì, la carta ascolta tutto”.

Nella seconda parte del testo la narrazione dell’autrice appare come il racconto di chi guarda dopo molti anni da lontano la propria vita e nel racconto sbiadiscono, si perdono alcune cose ed altre, quasi sorprendentemente, vengono in primo piano. Edith Bruck, a novant’anni e dopo aver molto scritto racconta ora, per ampie pennellate, i suoi sforzi per crearsi una nuova vita attraverso molte avventure: il tentativo di stabilirsi in Israele, i vari mestieri per sopravvivere, il matrimonio vero e quello finto, la sua partecipazione alle tournée di un corpo di ballo da Atene a Zurigo, a Napoli, per approdare infine a Roma, sempre col sogno irrealizzato della scrittura. E in Italia dopo molto tempo si sente a casa: “Per la prima volta mi trovavo bene subito, dopo il mio lungo e triste pellegrinaggio; “Ecco,” mi dicevo, “questo è il mio Paese.” La parola patria non l’ho mai pronunciata: in nome della patria i popoli commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola “patria”, come tante altre parole: “mio”, “zitto”, “obbedisci”; “la legge è uguale per tutti”, “nazionalismo”, “razzismo”, “guerra” e quasi anche la parola “amore”, privata della sua sostanza. Ci vorrebbero parole nuove anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia”. Pian piano imparerà l’italiano e finalmente riprenderà in mano il suo quadernetto e inizierà a scrivere in italiano per non smettere più. Fondamentale sarà poi l’incontro con Nelo Risi, regista e poeta, con cui vivrà sessant’anni di amore fino alla morte tra le sue braccia.

Il libro è percorso da un filo rosso che è la parola pane. “ Il pane perduto” del titolo è quello che la madre aveva impastato la sera prima della deportazione e che non può cuocere e mangiare, è la fine della loro quotidianità, é la fine della loro vita. “Pane” torna nell’ultimo capitolo là dove esprime la sua gratitudine all’Italia, che l’ha accolta come una figlia adottiva e le ha dato molto di più del pane quotidiano, ma dove esprime anche la sua preoccupazione per il Paese e per l’Europa, “dove soffia un vento inquinato da nuovi fascismi, razzismi, nazionalismi, antisemitismi” di cui in parte il popolo sembra disposto a nutrirsi. E lei, da donna che ha molto vissuto, guarda questo mondo e prova ormai una dolorosa nostalgia di una se stessa “scalza, in corsa nella tiepida polvere della primavera sulla viuzza Sei case dove ero IO, senza passato, solo futuro, una vita fa”. La parola “pane” torna nella Lettera a Dio, che scrive in appendice al libro, quando elenca le parole che usiamo per descriverlo: Immortale Unico Eterno, “parole necessarie come pane per chi ha fame, e di fame non manca il mondo come non manca di abbondanza per pochi”.

Nella preghiera finale l’autrice dà conto della sua eterna ricerca di Dio a cui scrive mentalmente da quando aveva nove anni e scrive ancora adesso dopo più di ottanta. La sua parola oscilla tra i dubbi esistenziali di una vita, legati alla sua sorte personale, alle fedi del padre e della madre, al suo destino di ebrea e di sopravvissuta e i dubbi universali di un Dio che ha permesso l’Olocausto, di un Dio che lei cerca nel Vuoto. Dio Unica Infinita Ripetizione in un mondo in cui tutto si ripete, “ il più grande mistero che esiste, se esiste … domanda che non avrà mai risposta” sia per chi crede ciecamente sia per chi dubita lucidamente, domanda che in lei stessa resta sospesa. E a Dio, Grande Silenzio, rivolge l’ultima preghiera, l’ultima richiesta del suo pane quotidiano: la memoria, per onorare il debito che è di lei sopravvissuta, ma è anche di tutti noi, di non dimenticare e di raccontare ciò che è stato.


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