Maria Grazia Cutuli, il coraggio del giornalismo

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Vent’anni senza Maria Grazia Cutuli, la coraggiosa giornalista del Corriere della Sera, inviata di guerra che trovò la morte in Afghanistan, lungo la strada che congiunge Jalalabad e Kabul. Venne assassinata a Sarobi, insieme a Julio Fuentes, inviato di El Mundo, e a due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari.
Ricordiamo Maria Grazia, la sua forza d’animo, la sua penna che non faceva sconti a nessuno, le sue descrizioni precise e meticolose e il suo essere partita dalla Sicilia per affrontare ogni sfida, a cominciare da quella tutt’altro che semplice di anni di precariato. Ricordiamo la sua tenacia e il suo desiderio di essere sempre in prima linea, al fronte, là dove le cose accadono e un giornalista ha il dovere di essere presente. La ricordiamo per la limpidezza dei suoi racconti, per la cura che metteva in ogni corrispondenza, per l’attenzione con cui studiava le fonti e svolgeva il suo lavoro sul campo. E la ricordiamo soprattutto per la sua infinita umanità: ciò che fa la differenza fra un semplice cronista e un grande inviato, capace di penetrare all’interno dei fenomeni, di entrare in sintonia con le popolazioni locali, di provare empatia per i deboli, talvolta gli ultimi della Terra, di prendersi cura del prossimo e di cercare di capire senza mai puntare il dito per ergersi erroneamente a giudice.
Maria Grazia Cutuli, vent’anni dopo, sarebbe stata costretta ad assistere all’orrore della nuova caduta di Kabul, del ritorno dei talebani, delle umiliazioni strazianti ai danni delle donne, della sconfitta, forse definitiva, dell’Occidente e dei sogni infranti di un popolo e di una comunità internazionale mai così assente, cinica, egoista.
In questi giorni, con ogni probabilità, l’avremmo trovata al confine fra la Polonia e la Bielorussia a raccontare un altro dramma contemporaneo: quello dei migranti, dei bambini che muoiono nel gelo, dei fili spinati e dell’Europa che assiste inerte al massacro, intenta unicamente a solleticare gli istinti più bassi di un’opinione pubblica che due decenni di propaganda becera hanno educato all’odio e al disprezzo per il prossimo.
Maria Grazia l’avremmo vista all’opera ovunque: dall’Iraq alle rotte migratorie, dai Balcani alla Turchia, probabilmente in Libia e nel racconto delle Primavere arabe, forse persino in Siria, sicuramente di nuovo in Afghanistan; ovunque ci fosse stato bisogno di lei, lei sarebbe andata. Del resto, questo era il suo spirito e il suo modo di intendere la professione, questa era la sua missione e la ragione stessa della sua esistenza.
Vent’anni dopo ci guardiamo intorno e ci rendiamo conto di non aver perso solo una grande inviata ma, più che mai, una splendida persona. Una giornalista giornalista che non ha mai chinato la testa e non si è mai tirata indietro. Aveva appena trentanove anni. Renderle omaggio non basta: bisogna portarne avanti il lavoro e seguirne l’esempio, altrimenti, spiace dirlo, sarà morta invano.

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