La più plateale delle sfide all’informazione fu fatta dai casalesi in un’aula di giustizia. E ora una sentenza racconta tutto. Il caso Capacchione-Saviano

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Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ‘e mezzanotte, volle minacciare Roberto Saviano e Rosaria Capacchione per affermare il suo potere e volle farlo in un’aula di Tribunale per il tramite del suo difensore Michele Santonastaso. Era il 13 marzo del 2008 e ci sono voluti tredici anni e mezzo per affermare in atti giudiziari ciò che fu chiaro, emblematico ed estremamente grave già allora. La mafia non ama i giornalisti, alcuni li ha uccisi senza pietà e senza che sia stato mai chiesto scusa. Però il clan dei casalesi, che è una mafia ferocissima plasmata dentro quello spicchio di formaggino d’Europa che è l’agro aversano, ha fatto una cosa originale e al tempo stesso spietata, senza precedenti e che adesso resta il più grave attacco all’informazione mai registrato in quei termini. Un attacco a Roberto Saviano, a Rosaria Capacchione e a tutti i giornalisti italiani, risarciti del danno riconosciuto alla Federazione Nazionale della Stampa, parte civile tramite l’avvocato Giulio Vasaturo. Per comprendere la portata storica di questa sentenza sarebbe sufficiente leggerla piano, entrando nelle pieghe di ciò che i casalesi non volevano fosse reso noto e scorrendo l’elenco troppo lungo dei processi che provano l’esistenza stessa del clan fondato a Casal di Principe da Antonio Bardellino. Fondato sul sangue e sul potere, sugli abusi, le complicità, su una terra martoriata e un’economia fatta a pezzi e messa in croce.
Questa storia, ossia la più plateale minaccia alla libertà di stampa da parte di un capoclan è ricostruita con precisione millimetrica a pagina 21 della sentenza del Tribunale di Roma, emessa il 24 maggio scorso e le cui motivazioni sono state pubblicate ieri. L’antefatto è l’udienza del 13 marzo 2008 tenuta davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Napoli: si stava giudicando Francesco Bidognetti. Era il secondo grado del maxi processo Spartacus. E il boss aveva due urgenze. La prima: screditare i pentiti e alimentare il dubbio che fossero pilotati dai magistrati, insinuare ombre sulla figura specifica di Raffaele Cantone. La seconda: mettere alla gogna i due giornalisti che avevano fatto conoscere i casalesi fuori dal territorio dei casalesi, dando a certa stampa la qualifica di prezzolata un tanto ad articolo. Insomma buttarla molto in caciara e per far questo era necessario un passaggio in aula, teatrale, che arrivasse agli affiliati del clan medesimo oltre che al grande pubblico. Già perché in quel momento, alla fine degli anni duemila, Francesco Bidognetti era il reggente in capo del clan dei casalesi pur essendo già in carcere al 41 bis. Per raggiungere questo risultato Cicciotto’e mezzanotte e il suo avvocato buttarono giù un’istanza di rimessione del processo partendo dall’assunto che quella Corte poteva essere inquinata. Da chi? Da un clima torbido fondato sulle dichiarazioni dei pentiti e le opere di giornalisti e magistrati, alcuni ben individuabili. Nella sentenza che ha condannato Bidognetti a un anno e mezzo e Santonastaso a un anno e due mesi si parla di una “precisa strategia” per mettere a tacere l’autore di Gomorra e la giornalista de Il Mattino. E il fine era quello di agevolare ” il potere di controllo sul territorio esercitato dal clan”. Ma tutto questo doveva avere un palcoscenico adatto: l’aula della Corte d’Assise di Napoli, dove Bidognetti era presente collegato dal carcere de L’Aquila. Il suo avvocato lesse il lungo documento contenente una richiesta di rimessione che avrebbe dovuto semplicemente essere depositata. Infatti sul piano procedurale fu poi ritenuta inammissibile. Un’anomalia, rilevata già dal Presidente della Corte quel giorno. Tuttavia Santonastaso proseguì la lettura perché era un editto e andava snocciolato fino in fondo. Il documento faceva espresso riferimento ai giudici “influenzati” da ciò che avevano scritto “i giornalisti prezzolati”. Per il Tribunale di Roma non ci sono dubbi: si trattò di una minaccia alla stampa, una vera e propria intimidazione posta sotto forma di iniziativa legittima della difesa di Francesco Bidognetti. La gravità di quella uscita apparve subito chiara e infatti immediatamente Capacchione fu messa sotto scorta e quella di Saviano venne rafforzata. Ecco cosa scrivono i giudici del Tribunale di Roma a sostegno della condanna di Bidognetti e del suo difensore: “L’ostentata indicazione nominativa dei due giornalisti, non funzionale al fine processuale, non può che essere interpretata come un attacco diretto alle due parti civili con una forte valenza di minaccia amplificata dalla lettura in aula che fu del tutto irrituale”.
La “coreografia”, le parole, l’attacco frontale furono preparati prima dell’udienza. Anche se nel corso del processo l’avvocato del boss ha dichiarato di aver scritto l’istanza senza alcun accordo con il suo assistito, il Tribunale ha ritenuto che, al contrario, fu proprio Bidognetti a ordinare quel messaggio con la complice disponibilità dell’avvocato. A supporto di questa conclusione ci sono, tra l’altro, i dialoghi tra i due durante la visita in carcere antecedente l’udienza del marzo del 2008. Lo si evince in modo assai esplicito nella parte della istanza di remissione in cui si parla di un passaggio del libro Gomorra riferito all’assassinio di Antonio Bardellino, attribuito dall’autore a Bidognetti. L’avvocato Santonastaso cita la pagina precisa in cui è scritto. La sentenza del Tribunale di Roma riporta questa specifica vicenda: “…Santonastaso evidentemente, nel corso dei colloqui avuti con il suo assistito Bidognetti, ebbe chiara la strategia da seguire, che non doveva essere quella di presentare una querela per diffamazione contro l’autore del libro Gomorra ma piuttosto quella di sbugiardarlo pubblicamente facendo un esplicito riferimento al libro nell’atto di rimessione letto in udienza con l’esatta indicazione della pagina e additando il suo autore per nome, perché nessuno poteva impunemente attribuire a Bidognetti l’omicidio Bardellino, in quanto evidentemente era fondamentale, per logiche interne alle dinamiche criminali del clan, sia allora sia tuttora, che Bidognetti non fosse considerato mandante di quell’omicidio. La conclusione che si deve trarre ad avviso del Tribunale è che oltre che alla rimessione Bidognetti era fortemente interessato (e lo è ancora) a rendere chiaro all’esterno che non poteva essere a lui pubblicamente attribuita la paternità dell’omicidio Bardellino e aveva interesse a che Saviano fosse, altrettanto pubblicamente, ‘messo a posto’ affinché non ne venisse scalfita la sua autorità e affinché il giornalista, o altri come lui, non prendesse nel futuro iniziative nei suoi confronti. In definitiva la sua strategia, che il suo difensore Santonastaso pedissequamente seguì, era quella di demolire la credibilità di Saviano, denigrandolo e additandolo come giornalista prezzolato e quindi di isolarlo e di intimargli il silenzio. Conclude questo Tribunale che l’intervento di Santonastaso, nella parte in cui, in modo del tutto avulso dalla finalità dell’atto di rimessione, contiene minacce rivolte ai due giornalisti, fu quindi dettato dall’interesse di Bidognetti di bloccare la loro azione nei suoi confronti”. L’avvocato Santonastaso nel dibattimento del processo per la minaccia ai giornalisti ha spiegato così le ragioni del suo “attacco” a Saviano: “…perché ritenevo che questi articoli, questi articoli di stampa, potessero inquinare il sospetto che questi Magistrati potessero avere praticamente non tranquillità nel giudizio”. Dunque le intimidazioni alla stampa vengono equiparate ad una semplice strategia difensiva: “Anche se il fine di paralizzare le iniziative della stampa non è certamente un fine difensivo, con riguardo all’articolo che lo scrittore pubblicò il 6.7.2007 può sostenersi che fosse questa la logica perseguita da Santonastaso”, si legge nelle motivazioni della sentenza.
Il fatto che tutto questo sia avvenuto quando già i casalesi avevano subito gravi colpi dalle investigazioni dimostra che quel clan corrisponde esattamente alla descrizioni che ne ha dato Roberto Saviano e con lui tanti cronisti campani, ossia che si tratta di una mafia ferocissima, fiera, ricca, che non voleva diventare famosa oltre i confini della provincia di Caserta. Ed era pronta a tutto pur di mantenere quello status. Questa sentenza non è (soltanto) una vittoria per Saviano e Capacchione, è piuttosto il risarcimento che tanti cronisti di nera avevano il diritto di ottenere. Per andare avanti.

(Nella foto Francesco Bidognetti)


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