Il “guitto immondo”: Nicola Vicidomini: un saggio da Mimesis

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Non ci sono più i comici di una volta. E meno male. Ridotta spesso ad un intrattenimento seriale che si trascina sull’ovvio e riproduce in maniera semi-grottesca i meccanismi sociali, la comicità scade ormai al livello di vallettume televisivo, laido, allusivo e fintamente scorretto politicamente trova la sua nemesi in Nicola Vicidomini, artista, musicista, comico, performer napoletano di Tramonti, sulla costiera amalfitana. A lui Mimesis dedica Il più grande comico morente. La comicità e il teatro di Nicola Vicidomini a cura di Enrico Bernard che raccoglie una serie di testimonianze critiche. Ventidue interventi tra critica, antropologia, estetica non senza un pizzico di dissacrante ironia per il fenomeno dell’antiteatro italiano. Enrico Bernard sembra accostare, nel saggio d’apertura, l’esperienza Vicidomini a quella dei Distruttuvisti Attivisti del 1929, nel solco di una rottura e nello stesso tempo “recupero e rilancio sotto altre spoglie della tradizione.” Ma chi è Nicola Vicidomini? Se l’esordio nel 1997 come chansonnier sembrerebbe destinarlo alla musica – dal notevolissimo Mi dò un tono (2005) a Electronic Love a Scendi Vittorio Scendi (2008), prodotto dalla Andy Warhol foundation di New York – Vicidomini si impone soprattutto sulla scena con Trapasso inanatomico (2009), Scapezzo (2014) e Fauno (2019). Vicidomini sfugge quindi ad ogni tassonomia e ad ogni tentativo di classificazione ponendosi come il protagonista assoluto dell’antiteatro italiano: un “teatro-performance alla cui base c’è il jazz” come nota Michele Monetta, il regista che lo ha avviato allo studio della Commedia dell’Arte.

Nella diversità delle espressioni che connotano il libro, un comune, unico denominatore emerge chiaramente: Vicidomini è il centro di un universo inclassificabile e infinito “profeta dell’eterna morte del e nel teatro” – e per questo comico morente – di una nientità espressa ed esibita dal basso e verso il basso: ululati, gorgoglii, onomatopee, un linguaggio arcaico e pre-verbale, un corpo esposto e nudo, su cui e con cui lavorare, osceno e puro ad un tempo: furia disgustosa e incommensurabile. E’ Fabrizio Natalini che sottolinea la “maschera tragica di Scapezzo, un canto disperato con cui racconta al suo pubblico il fallimento che siamo e che è la natura. Per Vicidomini la natura è caos insensato e senza confini.” “In un’epoca in cui il disgusto – scrive Riccardo Rosa – ci circonda, è necessario fare schifo per davvero per raccontare la realtà nella sua essenza.” La poetica vicidominiana spiazza così ogni falso moralismo, lo oltrepassa, smascherando ogni nostra nullità: “il tema infatti – scrive ancora Rosa – è il nulla in sostanza. La sua presa d’atto e (forse, ma anche no), il suo superamento”.

E se Federica Cacciola incentra il suo saggio proprio sull’arte del disgusto grazie alla risata ancestrale che il teatro di Vicidomini provoca, Giorgio Focas affronta la questione dal punto di vista dell’estetica “di un teatro in-condivisibile, in-testimoniabile, fuori dal genere e dalla storia”, così come fa Elio Goka narrando del “verbo corporeo” di Vicidomini. E se Vincenzo Del Gaudio sottolinea il teatro di Vicidomini come “attitudine profanatoria che, agambenianamente, può avvenire solo attraverso un uso incongruo del sacro” e ne evidenzia la la “furiosa volontà vampiresca” con la quale assale i media, offrendo un profilo critico che comprende produzione discografica, teatrale e cinematografica (De Sancta quiete, 2010), Alfonso Amendola ne propone una lettura storicamente inquadrata, ascrivendola al “microsurrealismo italiano (definizione mutuata da Geno Pampaloni), alla “radice Zavattiniana e a tutta la migliore scuola milanese (da Cochi e Renato a Jannacci) […] dentro una dimensione disorganica dichiaratamente abusiva”. Insomma Vicidomini è – come scrive Mariano Equizzi – l’attorphagus, collegato “a quella sfera lacaniana di sberleffo, di aggressione fisica e di minaccia incombente sul pubblico”. Altri invece ne hanno focalizzato la loro attenzione sui testi, sul linguaggio. Per Gabriele Perretta, il suo è certamente tra i contributi più pregni ed interessanti, la funzione poetica della lingua di Vicidomini “è una specifica sismicità provocatoria, all’interno del sistema comico delirante”, evitando di cadere come è spesso successo in buona parte della produzione novecentesca di apparire incomprensibile ed enigmatica, aggirando il concetto di ambiguità sul quale al contrario, tanta critica si è votata (si pensi ad esempio al testo di San Francisco cantato da Nicola Vicidomini con Scott McKenzie).  “Lo spettacolo di Nicidomini è per Perretta un “enorme ordito geometrico di fili glottofonetici”.

Ma agli interventi specialistici fanno da contraltare altri più irriverenti, meno accademici ma non certo meno significativi: per Fulvio Abate, per esempio, Vicidomini si reincarna nell’irregolarità di Carmelo Bene, manifestando “la propria alterità rispetto al luogo comune, all’ovvio, all’ottuso al banale […] è “lì pronto a dire, che so, noi siamo altro, metti, da tutto e da tutti, noi, insomma, con le parole di Carmelo nostro, addirittura possiamo permetterci di apparire alla Madonna”. C’è pure chi sceglie, come Bruno Di Marino, la lettera, per sottolineare alcuni elementi delle performance di Vicidomini: da un lato il suo “corpo pneumatico, anzi, peristaltico, […] un corpo parola […] che procede per tormentoni, reiterazioni ossessive, alternando la lingua italiana a un dialetto […] usato come onomatopea, rumore,” un corpo votato “all’autodistruzione”; dall’altro musica e cinema: “De Sancta Quiete è un film che un (tormentato) lavoro nel suo farsi […] in cui mette in scena anche la sua processualità”. Altri ancora, come Ernesto Bassignano, forte di una lunga e consolidata amicizia con Vicidomini, lungo un intervento a mo’ di dialogo, ripercorre le tappe della formazione di questo “guitto immondo”: le grandi scapigliature sessantottarde, “le infinite notti rutilanti del Teatro Tenda di Natoli, al Testaccio, alla Fede di Nanni del Portuense con il Living Theatre, passando per Benigni all’Alberichino, Robutti alla Spazio Uno, Bene al Beat ‘72 e Ulisse al Colosseo…” La chiusura di un testo su un artista così spiazzante non poteva che arrivare dalla mano di Maurizio Milani, tra i maggiori umoristi italiani. La sua esilarante postfazione chiosa un volume agilissimo arricchito pure da frammenti dei testi di Vicidomini – da Fauno, da Scapezzo da Il nuovo libro di Piero Angela – che ha il merito di tentare di spiegarci un artista che si considera “la persona più distante da me stesso […] Sto. Mi sopporto. Mi resisto. Da sempre non sono mai stato solo. Mi seguo pure quando vado in bagno. Che schifo… Peggio di me chi è solo da tutta la vita. Solo perché non sa cosa si perde a schifarsi senza sosta, senza remora, senza risparmio: un senso di teologica giustizia.” Amen.

Il più grande comico morente. La comicità e il teatro di Nicola Vicidomini a cura di Enrico Bernard, Mimesis, Milano – Udine 2020, euro 12,00


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