Mestieri del cinema e Fellini. L’attore

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L’attore, argomento inesauribile: è il ruolo più avvincente, lusinghiero, inebriante, ma anche il più delicato nella costruzione del film, l’anello fragile nella catena. Parlando dell’attore bisogna rovesciare il campo, compiere un salto di 180° e occupare quella posizione assai ambita che si trova davanti alla macchina da presa, non più nelle retrovie. Si potrebbe arrivare ad affermare con una minima forzatura che, per lo spettatore, il film è lui, l’attore. E’ il suo volto che ricorderemo per sempre; faremo nostre le sue emozioni, le avventure che attraversa, i pericoli che corre, le passioni esultanti o tormentose. E’ di lui (di lei) che ci innamoreremo, ed è al suo posto che vorremmo trovarci. Sul personaggio che interpreta nel film proiettiamo, quasi senza accorgerci, le più segrete aspirazioni della nostra natura multiforme, del nostro immancabile narcisismo.

L’attore, non dimentichiamolo, nasce insieme all’atto originario dello spettacolo, il momento in cui una creatura umana inizia a danzare attorno all’altare di Dioniso, il dio delle pulsioni e dell’inconscio. La danzatrice (il danzatore) che al suono dei cimbali e del flauto muove a tempo i piedi per onorare Bacco, inventore del vino che inebria e scioglie le membra, prefigura già l’azione teatrale. Egli è il campione dello sdoppiamento e dell’irrazionale, alunno dello spirito della selva incarnato dai satiri che insidiano le ninfe, metà uomini e metà caproni, istinto e raziocinio. Di tutto ciò si nutre la natura dell’attore che sembrerebbe racchiudere in sé l’inclinazione innata nella creatura umana all’esibizione vocale e corporea. L’attore incarna quella nostra parte sepolta, ma pur sempre desta, pronta a riemergere sul palcoscenico della vita sotto le spoglie più imprevedibili e fantasiose.

L’attore, l’attrice, sono gli astri del firmamento cinematografico, in inglese starsystem, e vengono chiamati divi perché ci appaiono rifulgenti e irraggiungibili, dunque sovrumani nel loro fascino irresistibile, e nel loro potere insidioso di turbare i nostri cuori. Vogliamo sapere tutto di loro, dove abitano, chi amano, i vestiti che indossano, le auto che possiedono, i flirt, gli hobby, i gusti, le abitudini, ogni piega della loro esistenza. Sono divinità dell’Olimpo di celluloide che spiamo incessantemente dalle pagine patinate delle riviste di scandali, dai rotocalchi di pettegolezzi, dalle news catodiche, dai profili pubblici sulla rete, dalle trasmissioni televisive. Ce ne occupiamo insaziabilmente. Perché conducono quella vita di successo, di ricchezza, di soddisfazioni, di lusso, di emozioni, di sesso, concessa soltanto a pochissimi privilegiati baciati dalla fortuna, eternamente ammirati, imitati, invidiati. A Hollywood si trovano in vendita mappe del Sunset Boulevard (ricordate quel capolavoro impareggiabile di Billy Wilder intitolato “Viale del tramonto”?) con l’ubicazione delle ville dei divi; e non pochi idolatri hanno preso a frugare sistematicamente nel loro garbage can (bidone della spazzatura) per ricostruirne lo stile di vita dall’osservazione dei rifiuti che gettano via: cibi, bevande, integratori, schiuma da barba, profumi, medicinali. Vizi e virtù dei loro consumi quotidiani, le marche che preferiscono, la biancheria che indossano. Una morbosità che non conosce limiti.

Il problema è che noi mortali tendiamo a identificare le loro esistenze con le trame dei film e con i personaggi che impersonano sullo schermo; ne subiamo l’erotismo che emanano fatalmente, sempre ‘inquadrati’ dalla cinepresa al meglio della loro bellezza, levigati dalle luci, scrutati dal sapiente obiettivo degli operatori, mostrati invariabilmente nel loro aspetto più desiderabile. Nella realtà sono persone come noi, non di rado più infelici perché soggetti allo stress del consenso, e quindi al capriccio del pubblico, condannati al successo obbligato senza il quale sparirebbero in un battito di ciglia. Inoltre l’attore ha alcuni acerrimi nemici nella sua professione: intanto è l’unico artista che per esprimersi non ricorre a uno strumento (la penna, il pennello, lo scalpello), dal momento che egli stesso è lo strumento, il suo corpo, la sua faccia, la sua voce. Di conseguenza è costretto a prendersi una cura ossessiva della propria persona. In secondo luogo deve infilarsi in un personaggio e renderlo credibile: dunque sdoppiarsi. Infine l’attore non sceglie, ma è scelto. Anche quando è un nome celebre con la facoltà, in teoria, di rifiutare i ruoli meno graditi, in pratica ha scarsa voce in capitolo in quanto arriva nell’allestimento del film a giochi fatti, quando quasi tutto è già stato deciso: storia, sceneggiatura, luoghi, partners, collaboratori artistici. A lui rimane solo il compito di entrare in scena e recitare la parte assegnata. Certo, attori influenti e strapagati riescono entro certi limiti a condizionare la produzione, perché è il loro nome spesso a garantire il buon esito finanziario e commerciale dell’impresa; ma di fondo quando arrivano davanti alla macchina da presa sono nelle mani del regista e dei tecnici, i quali decidono ogni suo gesto ed espressione. L’attore è condotto per mano come un bambino e deve fidarsi. Soltanto a riprese concluse si rivedrà sullo schermo, rendendosi conto se ce l’ha fatta o meno. E comunque sarà sempre il pubblico ad avere l’ultima parola, a giudicarne l’efficacia e la bontà della performance, indipendentemente dalla valutazione che egli darà di sé stesso.

Franco Interlenghi, l’indimenticabile Moraldo de I vitelloni, in una carrellata di due ore che ho interamente dedicato agli attori più importanti dei film del Maestro riminese, I PROTAGONISTI DI FELLINI, aveva dichiarato con disarmante semplicità:

“La nostra vita consiste nello stare vicino al telefono ad aspettare la chiamata, senza mai sapere quando e se arriverà. È una vita di attesa, in cui tra un film e l’altro c’è soltanto un vuoto da riempire, sempre con la mente protesa a quella chiamata”.

La sua sincerità malinconica mi parve riassumere senza tanta retorica un destino per niente facile.

Forse in nessun altro essere umano esiste una dissociazione così profonda tra ciò che sei e ciò che appari, tra il tuo talento e l’uso che qualcun altro ne fa.

Gassman, il grandissimo Vittorio Gassman, ammirato anche da Fellini (“È il vero, autentico erede dei grandi attori del passato, ci fa rivivere il sentimento di tutto ciò, non solo attraverso la scena ma attraverso le parole”), il Mattatore, l’attore nato per le luci della ribalta, imponente, sicuro, roboante, dotato di una vocalità chiara, forte, inimitabile, ricolma di sfumature, detestava invece la propria voce, come racconta Marco Risi nel suo bel libro Forte respiro rapido: “Al doppiaggio ogni tanto esclamava nel microfono, al leggio: «Che voce di merda!». Quella sua voce proprio non gli piaceva, come non gli piaceva rivedersi mentre recitava”.

Di Gassman seppi che a volte, prima di entrare in scena, cercava il coraggio e la concentrazione nel dolore fisico, spegnendosi la sigaretta sul palmo della mano. Tanti altri ricorrono all’alcol, bevono in camerino o tra le quinte, per allentare la tensione, vincere l’insicurezza, contrastare il tremore e soprattutto lo spettro dei vuoti di memoria, le amnesie improvvise che non sai come nascondere al pubblico in attesa della battuta.

Mastroianni, aveva una memoria istantanea, leggeva una pagina, un qualsiasi testo e lo ripeteva a memoria quasi senza errori; alla seconda lettura ce l’aveva scolpito in testa. Ma per arginare l’ansia, dormiva, anche ai bordi del set, sulla sua poltroncina di tela: chiudeva gli occhi e dormiva. Magari aiutato da un po’ di whisky. Aveva imparato, asseriva, da Vittorio De Sica che era un campione della tecnica: dormiva ovunque, si sedeva e si appisolava; poi quando lo chiamavano era già pronto, entrava nel set e recitava come se avesse provato fino a un minuto prima.

Ma non possiamo soffermarci sugli aneddoti, sarebbero troppi, davvero interminabili. E anche qui bisognerebbe quantomeno distinguere tra l’attore ordinario e il divo, traguardo agognato di chiunque abbia deciso per talento, per incoscienza, per vanità o per ambizione di calcare la scena, di esporsi a petto in fuori al giudizio dello spettatore.

Mario Camerini, maestro di charm femminile, sosteneva che l’attrice si riconosce immediatamente inquadrandola in primo piano: se guardando nel mirino scorgi dentro i suoi occhi le fiammelle, due lampadine accese, allora quel viso sarà in grado di incantare il pubblico, più di ogni altro attributo fisico. Nel cinema sono gli occhi che contano ed è verissimo. Come nell’amore.

Mario Soldati, finissimo letterato e regista di grazia, sosteneva che l’attore di razza si distingue dal baricentro alto del sedere, caratteristica che gli conferisce un andamento lievemente proteso in avanti, come dire, ‘avvenente’ (dal latino ad venire, che viene incontro, che si muove verso di noi) funzionale al proscenio. Un atteggiamento che ho notato spesso negli attori napoletani di razza, i quali sembrano recitare lievemente sbilanciati in avanti.

Fellini considerava gli attori inglesi, educati da secoli di palcoscenico, i migliori del mondo. Jeremy Irons aveva dichiarato in un’intervista: “We are Actors with the capital A” (Noi britannici siamo attori con la A maiuscola); e, sorvolando sul tono burbanzoso, aveva pienamente ragione, è proprio così, sono sempre stati e continuano a essere i migliori interpreti su ogni genere di ribalta.

Gli attori di lingua inglese fin dall’inizio sono stati di casa nel cinema di Federico: Anthony Quinn, Richard Basehart, Brodrerick Crawford, Lex Barker, Barbara Steel, Eddra Gale, Terence Stamp. Per non parlare dei tre giovani protagonisti di Satyricon, o di Donald Sutherland nella parte di Casanova, e di tutti i primi ruoli e i numerosi comprimari di E la nave va, a cominciare dal protagonista Freddie Jones.

Ma al medesimo livello di eccellenza il regista riminese innalzava gli attori napoletani; per antica consuetudine, di proposito non chiudeva mai un cast se prima non passava dalla Galleria Umberto I, ritrovo di tutti i teatranti partenopei. Tra loro trovò persino l’adolescente che, nel Satyricon, incarnava il semidio albino consultato come un oracolo nel suo antro misterioso. E i protagonisti del film più romagnolo da lui diretto, Amarcord, sono tre napoletani, Pupella Maggio, Armando Brancia, e Giuseppe Janigro (madre, padre e nonno di Titta), oltre a  molti altri generici caratteristi.

Ma per Fellini l’attore ideale, il prediletto, si sa, era Marcello Mastroianni, ormai riconosciuto da tutti come suo alter ego:

«Lavorare con Marcello è una gioia: delicato, disponibile, intelligente, entra nei personaggi in punta di piedi, senza chiederti mai nulla, senza nemmeno aver letto il copione.

“Che gusto c’è – dice – a saper prima quello che succede? Preferisco scoprirlo giorno per giorno, proprio come accade al personaggio.”

Si lascia truccare, vestire, pettinare, senza fare obiezioni, domandando soltanto le cose strettamente indispensabili; con lui è tutto morbido, pacato, disteso, naturale, una tale naturalezza che gli può permettere a volte di sonnecchiare durante le riprese dove lui è in scena, magari in primo piano.»

Di Giulietta Masina, il regista parlava come di un clown di razza, al femminile:

«Giulietta, come ho già scritto, è un’attrice dalla mimica, dalle cadenze, dai modi clowneschi. Ma è anche e soprattutto una creatura misteriosa».

Il paragone non era gradito all’attrice, che si sentiva sminuita nella somiglianza a un pagliaccio da circo, mentre per Federico l’accostamento aveva intenzioni esaltanti; il clown era per lui il prototipo di tutti gli attori, anzi l’archetipo stesso della vocazione, basata sui tempi infallibili della recitazione. La maschera dell’Augusto, i gesti, l’azione, la replica a ogni provocazione del Clown Bianco, è finalizzata alla risata, e nessun errore è concesso, neppure il minimo ritardo, altrimenti il meccanismo si inceppa e il pubblico non ride, non si commuove, non trasalisce. Il clown è il concentrato di ogni virtuosismo, l’essenza stessa dell’animale da spettacolo.

Ma i problemi di Federico nel dirigere la moglie sulla scena, avevano forse radici più complesse:

«Giulietta attrice vorrebbe essere il contrario del personaggio che fa con me. Ogni volta è recalcitrante, si sottomette dopo lunga resistenza. Come se avvertisse di dar vita a qualcosa di oscuro. Che è in lei e che lei rifiuta. Sulle prime detesta i vestiti, lo sguardo, la maschera dei suoi personaggi. Accanto alla Giulietta entusiasta, collaboratrice, sgobbona, è come se apparisse un’altra Giulietta che dice di no».

L’artista nondimeno ammetteva le proprie pecche, riconosceva di comportarsi egli stesso in maniera diversa sul set:

«Con Giulietta sono più nervoso, più esigente che con gli altri. Vorrei che facesse bene subito. Sono disposto a tollerare gli errori di tutti, quelli di Giulietta mi indispongono. In questo sono profondamente ingiusto. Il fatto è che Giulietta abita dentro di me assai prima degli altri attori; e mi sembra che non le sia consentito di sbagliare. A volte vorrei dirle: come, sei nata in questa storia prima di tutti e ancora non ti senti integrata alla perfezione con l’immagine che stiamo componendo?»

Sono davvero straordinarie le pagine che Fellini in varie occasioni scrive sull’attore, parlandone come di creature fatate e riferendone con inesauribile entusiasmo:

«Ho sempre desiderato dedicare un discorsetto all’attore, a questa creatura singolare in equilibrio tra realtà e finzione, all’uomo maschera e alla sua giocosa follia, e anche alla sua natura sempre un po’ sfuggente, ai suoi difetti, alla vanità, agli aspetti nevrotici, alla psicologia a volte bambinesca e un po’ schizoide.

Mi sarebbe piaciuto ricordare per esempio quale è stato il mio primo incontro con gli attori. E parlare di quella mattina, bambino, quando dietro l’orto di casa sentii improvvisamente srotolarsi con strepito la gran serranda della costruzione confinante (il teatro Politeama) e dentro intravidi un uomo e una donna seduti nella penombra, lui col basco e il cappotto, lei col suo lavoro a maglia: si

rimandavano certe battute di dialogo a proposito di una finestra forzata e di un tale sergente Jonathan. Erano due attori della compagnia Bella-Starace-Sainati che provavano il Grand Guignol.

Aiutato dalle mani dell’uomo entrai nell’atrio buio e vidi i palchi dorati tutt’intorno e sopra la testa, incombente, sospesa alle corde, tremolante fra celluloidi rosse, bianche, gialle, la pancia di una locomotiva.

La stessa impressionante locomotiva che quella sera o la sera dopo, portato a vedere lo spettacolo vestito da marinaretto, vedevo avanzare minacciosa dal fondo buio fra fischi, stridii e i fanali che si ingigantivano verso la bella donna legata sui binari… L’attrice veniva salvata in extremis dall’eroe

e su di lei piombava un enorme, pesante, morbido sipario rosso.

Era il teatro: una scena, un sipario e un inebriante labirinto di poltroncine, di velluti, di ottoni, di

passamanerie, di corridoi, di misteriosi cunicoli, in cui non avevo fatto che correre come un sorcio durante l’intervallo.

L’emozione era stata così forte che non mi abbandonò per tutta la notte.»


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