Generazione Covid

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Se qualcuno dovesse stilare un dizionario tascabile di quelle parole diventate parte del vocabolario quotidiano all’epoca del coronavirus, dopo Contagio e prima di Quarantena, inciamperebbe in Giovani. Con la G maiuscola, per includerli tutti. Una parola-contenitore che ne abbraccia tante altre: i “teens”, i “millennials”, la “generazione erasmus” o, per i più amichevoli, semplicemente “i nostri ragazzi”. Include gli adolescenti, vittime consapevoli di quel sistema scuola che non influenzerà l’andamento del PIL nel prossimo trimestre, per questo relegato in fondo alla lista delle priorità, ridotto al dibattito banchi-con-le-rotelle-sì vs banchi-con-le-rotelle-no. Include quei giovani adulti che altrove sarebbero considerati semplicemente adulti, e che qui provano ad emanciparsi dalla precarietà che li ha costretti a trattenersi troppo a lungo tra le pareti tappezzate dai poster dell’adolescenza. Include gli universitari, ritornati a casa in massa mentre aule studio e le biblioteche prendono polvere, costretti a rimandare lauree per un maledettissimo problema di connessione il giorno dell’esame. Include chi invece lavora e il sabato paga un giro al bar, chi ora però il lavoro l’ha perso e allora si mette in fila, composto, dietro a chi cercava, cerca e cercherà, dietro a chi aveva messo i soldi da parte per un biglietto sola andata che Ryanair non ha intenzione di rimborsare.

In quel contenitore in cui sono stati accuratamente riposti, relegati, stipati, i Giovani che politica ed editoriali citano non parlano. Costituiscono un’entità astratta, un corpo a sé stante tagliato fuori dal dibattito pubblico, come se fossero incapaci di esprimere un’opinione sensata sul quel “futuro cancellato” che Mario Draghi ha predetto per loro. Il suo monito “serve fare di più” sembra, anche questa volta, esser rimasto inascoltato da chi prometteva cambiamenti e ripartenze. Ai Giovani ci si rivolge con il dito puntato, come in classe, per chiedere alla categoria “un po’ più di senso della responsabilità” in modo da confinare la questione all’interno dei muri delle discoteche a ferragosto. Ai Giovani ci si rivolge in spiaggia, interrogandone tre o quattro tirati a sorte durante le vacanze, proprio quelli per cui Conte è semplicemente l’allenatore dell’Inter. Allora i Giovani, tutti, vengono bocciati perché “ignoranti e incolti”, impreparati ad affrontare questa “fase cruciale”. Anche nell’estate del Covid sono riapparse le richieste d’aiuto degli albergatori sui giornali: quei “fannulloni” non hanno voglia di lavorare, non troviamo personale.

Così si è tornati in fretta e furia a parlare come prima e con quelli di prima, forse per provare a dimenticare per un po’ quei dolorosi mesi che hanno sconvolto tutto, mettendo a nudo le conseguenze di politiche che per anni hanno ignorato i Giovani. Politiche come la costante svalorizzazione del lavoro nel paese che vanta uno dei tassi di disoccupazione degli under 35 più alti di Europa. Eppure un’enorme quantità di precari sfugge ancora alle tristi statistiche Istat: i tirocinanti non pagati con tre lauree, gli eterni stagisti senza contratto, le partite iva a 500 euro al mese, gli stipendi metà in regola e metà in nero. Negli ultimi diciassette anni, in Francia, il salario minimo annuale è cresciuto di sei mila euro. In Italia, i Giovani lo stanno ancora aspettando. “I millennials – però – non votano più”, sostiene l’Economist. Ma chi si rivolge a loro? Per chi può permetterselo rimane l’estero, la possibilità di tentare fortuna nel vasto spazio Schengen: sono i famosi “cervelli in fuga”, che suona meglio di emigrati, gli unici migranti che non accendono gli animi dei fautori del “prima gli Italiani”. Quasi la metà di loro non si è mai iscritta all’Aire, l’anagrafe dei residenti all’estero. Così mentre l’Italia nel 2017 contava 76mila partenze, i paesi di arrivo ne registravano almeno 146mila.

Ma qui, siamo davvero tutti sulla stessa barca? L’eredità della pandemia spetta ai Giovani, dicono, e nel periodo post coronavirus si nascono preziose opportunità. La formula magica è sempre quella: “innovazione”, “creatività” e “capacità di reinventarsi”, come se la responsabilità un po’ fosse loro. Ma i dati resi pubblici ad inizio settembre sembrano meno incoraggianti: è ai Giovani che la pandemia presenterà il conto, perché se proprio vogliamo raggrupparli in una categoria, questa corrisponde alla fascia più precaria e senza tutele della popolazione italiana. Un under 25 su sei, secondo l’organizzazione mondiale del lavoro, ha perso la sua occupazione. Non servono le percentuali a far realizzare ai ventenni che rappresentano la generazione più povera dal dopo guerra. Non servono i report dell’università di Oxford su fenomeni di ansia e depressione sempre più diffusi a ricordare loro l’effetto che fa pronunciare la parola Futuro, poco prima di Giovani nel dizionario tascabile dell’epoca del coronavirus. I Giovani entrano sul mercato del lavoro più tardi, iniziano ad avere uno stipendio dopo i trent’anni, rinunciano a prender casa o formare una famiglia in assenza di una stabilità economica. La laurea, il momento che vuole simboleggiare il passaggio alla fase successiva, è una festa amara. Allora, senza vittimizzarsi, si chiedono: un giovane italiano, oggi, quando può diventare adulto?

*Arianna Poletti, giornalista e finalista del Premio Morrione


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