Il numero dei parlamentari: una questione a lungo dibattuta che giunge al referendum

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Il Parlamento ha approvato quasi un anno fa una revisione costituzionale che porta il numero dei deputati da 630 a 400 e quello dei senatori elettivi da 315 a 200. Su questo gli elettori dovranno pronunciarsi in un referendum indetto per il 20 e 21 settembre, dopo il rinvio che lo stesso, già fissato per il 29 marzo, ha subito a causa dell’epidemia.

La riduzione del numero dei parlamentari era già stata oggetto, in passato di numerose proposte: da quella della Commissione Bozzi (1983) a quella della Commissione D’Alema (1997), dalla riforma del governo Berlusconi (2006) a quella del gruppo di lavoro istituito dal Presidente Napolitano nel 2013 e quindi – limitatamente al riformato Senato – alla revisione del Governo Renzi. E del resto, alla stessa Costituente, vi era stato un ampio dibattito sul punto. Il relatore Conti (Pri) aveva proposto di eleggere un deputato ogni 150.000 abitanti, proprio come avverrebbe a seguito della riforma costituzionale oggi proposta, mentre tra coloro che volevano un numero fisso si era parlato 300 o 400 o di un numero massimo «non superiore a 450 deputati». Tra i sostenitori di Camere più snelle vi erano, oltre a Conti, autorevoli costituenti come Einaudi e Perassi, secondo i quali una Camera più snella poteva essere più autorevole e meglio funzionante. Altri, soprattutto nelle fila della Dc (da Cappi a Bulloni a Fuschini), ma anche, ad esempio il socialista Targetti e il comunista Terracini (nel cui partito vi erano però anche voci diverse come quella di Nobile), sostenevano invece che vi fosse bisogno di un maggior numero di parlamentari per avere una maggiore rappresentanza, ma anche tra questi, comunque i numeri risultavano assai variabili. Come noto, la Costituente, alla fine, non fissò un numero fisso, ma si orientò verso assemblee numerose, prevedendo l’elezione di un deputato ogni 80.000 abitanti (o frazione superiore a 40.000) e di un senatore ogni 200.000 abitanti (o frazione superiore a 100.000), mentre nel 1963 una revisione costituzionale stabilì il numero fisso di 630 deputati e 315 senatori elettivi.

Tutto ciò mostra anzitutto come la scelta del numero dei parlamentari presenti un’ampia discrezionalità, come confermato anche dalle esperienze straniere. Nella Camera bassa, che è l’unica confrontabile in tutte le democrazie, in Francia (dove si sta discutendo di riduzione) il rapporto è di un deputato ogni 116.000 abitanti, in Germania (dove il numero è variabile) di uno ogni 117.000 e in Spagna di uno ogni 134.000. In Italia, attualmente abbiamo un deputato ogni 95.000 abitanti e dopo la riforma ne avremmo uno ogni 150.000. Occorre peraltro precisare che, tra i Paesi citati, l’Italia è l’unico ad avere anche un Senato pienamente espressione di una rappresentanza politica generale come quella della Camera (salvo che è eletto da chi abbia compiuto il venticinquesimo anno d’età, anziché da tutti i maggiorenni).

In definitiva, non esiste un numero perfetto e la rappresentanza non si risolve in un mero rapporto numerico. Essa, nel nostro Paese, pur in presenza di molti parlamentari, ha sofferto per diversi motivi: dalla rinuncia dei partiti a svolgere il loro ruolo costituzionale di strumenti attraverso i quali i cittadini possono concorrere alla determinazione della politica nazionale alle leggi elettorali che impediscono qualunque rapporto tra elettore ed eletto, dal noto assenteismo dei parlamentari ai ricorrenti episodi di conflitto d’interessi degli stessi, dalla loro sostituzione nelle commissioni da parte dei segretari di partito (in violazione della rappresentanza della nazione) alla difesa dei loro privilegi (dalle indennità all’autodichia) nonostante i chiari segnali di insofferenza dell’opinione pubblica.

Se è vero che la riduzione del numero dei parlamentari può richiedere, per un adeguato funzionamento delle Camere alcuni interventi sui regolamenti, è anche vero che – come sottolineato alla Costituente – assemblee più snelle possono lavorare meglio. Anche rispetto alla questione dell’autorevolezza delle assemblee, che secondo alcuni sarebbe ridotta dalla diminuzione dei loro componenti, come ricordava alla Costituente il relatore Conti, potrebbe invece sostenersi proprio il contrario. Del resto, il Senato consta di un numero inferiore di componenti anche in ragione della supposta maggiore autorevolezza degli eletti e la Camera probabilmente più autorevole del mondo, il Senato degli Stati Uniti, si compone di soli cento membri.

In definitiva, sembra che la riduzione del numero dei parlamentari non costituisca né un attacco alla rappresentanza né una mortificazione del Parlamento, ma che possa costituire un’occasione per il rilancio di un’istituzione che fatica ad occupare la posizione di cardine del sistema istituzionale che la Costituzione le affida, soprattutto se a questa si accompagnerà una legge elettorale capace di ricreare un rapporto tra elettori ed eletti, il recupero della funzione costituzionale dei partiti, il superamento di alcuni insostenibili privilegi dei parlamentari (dai cospicui emolumenti all’autodochia) e un miglioramento dell’integrazione tra la democrazia rappresentativa e quella diretta attraverso la quale gli elettori possono correggere l’indirizzo politico degli eletti, senza dover attendere la fine della legislatura.

Andrea Pertici
professore ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Pisa
avvocato patrocinante di fronte alle giurisdizioni superiori


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