Gianrico Tedeschi, Olivia de Havilland. In ricordo di due grandi interpreti

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Venuti a mancare quasi contemporaneamente in questi torridi giorni di “empia” estate pandemica, Gianrico Tedeschi e Olivia de Havilland, probabilmente sconosciuti l’uno all’altra, non avevano nulla in comune, se non il primario particolare di essere grandi attori “a tutto tondo”, più mille sfumature di sobria espressività e prossemica, frutti  di esperienza, sensibilità umana, rispetto per il pubblico e per se stessi. Accomunati, inoltre, dall’avere varcato il secolo di vita senza averlo mai strombazzato o trasformarlo nel  marchio, implicitamente reazionario, dei “grandi vecchi”. Semmai, come a volte capita celiare ad Eugenio Scalafari, considerandosi “vegliardi” non nella stretta etimologia di derivazione francese (‘vieil’), ma capaci di “vegliare” con discrezione e nessuna invadenza (“a tarda età si dorme meno”, ma non sempre) sull’inquieta giovinezza o pseudo-maturità di figli e pronipoti, in senso lato, astenendosi dall’esternare giudizi azzardati e di sprezzante insofferenza (“a tarda età capita a tanti”, quasi sempre).

Studente alla facoltà di Magistero della Cattolica, durante la seconda guerra mondiale, Gianrico Tedeschi (nato a Milano nell’aprile del 1920)  fu chiamato alle armi poco più che ragazzo- ma rifiutando di farsi “repubblichino” a Salò (“il fascismo mi desolava ancor prima dell’età della ragione”-annotai in una remota intervista), fu fatto prigioniero e internato nei campi di Beniaminovo, Sandbostel, Wietzendorf. Nella prigionia conobbe un altro eccentrico ‘dissidente’ e bastiancontrario, Giovannino Guareschi, che fu il primo dei suoi sostenitori, specie dopo averlo visto improvvisare, per i compagni di reclusione,  “Enrico IV”   di Pirandello.

Di ritorno dalla amara esperienza, nel 1947, Tedeschi fu studente (diplomato) della Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, avendo  il suo esordio ‘ufficale’ sotto la guida di Giorgio Strehler  con “Sotto i ponti di New York” di  Mawell Anderson. Negli anni successivi recitò in varie compagnie e in diversi teatri, tra i quali lo Stabile di Roma, cimentandosi anche nella rivista e nella commedia musicale (nel 1961 “Enrico ’61” con Renato Rascel e nel 1964 “My Fair Lady”, diretto da Garinei e Giovannini). Del 1950 è la sua sapida, divertita partecipazione a  “La dodicesima notte” di William Shakespeare, per la regia di Orazio Costa, a fianco di  Giorgio De Lullo, Camillo Pilotto, Salvo Randone, Nino Manfredi, Rossella Falk, Anna Proclemer

Sempre a teatro, fu successivamente scritturato dalle compagnie di   Randone,  Fenoglio, Renato Castellani, avendo a fianco  colleghi quali Anna Magnani, Marcello Mastroianni, Romolo Valli, “diversificandosi” poi con Renato Rascel e Domenico Modugno (era nel cast di “Rinaldo in campo”), per arrivare – da over.ottantenne infaticabile ed eclettico- accanto ai giovani Massimo Popolizio, Sergio Rubini, Marina Massironi. Con Strehler, intanto, era stato  Pantalone in “Arlecchino servitore di due padroni” nel ’74 e Peachum nell’”Opera da tre soldi”, poi in  “La locandiera” e “Tre sorelle”  diretto da Visconti- e di rientro a Milano, più volte alle prese con le ardue opere di Testori (regia di Ruth Shammah), e di Thomas Bernhard, di cui resta memorabilmente raffinata e ‘desolata’ la sua performance in  “Il riformatore del mondo” con la regia di Maccarinelli.

Senza dimenticare un saporito ed essenziale “Cardinale Lambertini” di Testoni (Teatro del Sole di Bologna) che ne esalta “la vitalità, curiosità, eclettismo di artista”, e pronto a misurarsi anche col varietà e la commedia leggera, “capace di cantare e muoversi danzando” accanto all’amabile Delia Scala   e alla più ostica Ornella Vanoni in “Amori miei”.

La versatilità di Gianrico Tedeschi lo rende ben presto  tra i protagonisti storici della   prosa televisiva in presa diretta degli anni sessanta, scritturato per “I giocatori”, “Tredici a tavola”, “La professione della signora Warren”,   “Delitto e castigo”,  “Il gabbiano”, “Demetrio Pianelli”. Brillante, ironico e  dotato di istintuivo (soffice) umorismo anche nello spettacolo leggero, specie a fianco di Bice Valori e Lina Volonghi nei varietà di Antonello Falqui Eva e in  “Bambole, non c’è una lira”, coprotagonista del surreale e purtroppo dimenticato Tino Scotti.

Con l’arrivo del terzo millennio, Tedeschi ritrova nuova linfa interpretando con rara, scarna dignità la condizione senile de “Le ultime lune” di Furio Bordon (che era stata l’ultima apparizione a teatro di Marcello Mastroianni), condotta in tournée per diverse stagioni, seguito poi dall’ostico, sulfureo Oldfiel  de “La compagnia degli uomini buoni” di Edward Bond, regia di Luca Ronconi, che gli vale il premio Ubu  quale miglior attore del 2011.   Ultimo guizzo di vitalità e memoria, il corpo sempre agile e snello, tre anni fa con “Dipartita finale” di Franco Branciaroli, da cui venne affettuosamente condotto, per primo, alla ribalta degli applausi alla ‘prima’ del Teatro Bellini di Napoli.

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Ci lascia anche Olivia de Havilland, che con Lilian Gish e la scrittrice britannica Ida Pollock è stata  al femminile fra le personalità più longeve del “mileu” cinematografico anglofono: ultimo mito della “Hollywood dei tempi d’oro” (come hanno titolato quasi tutti), inglese naturalizzata statunitense nel 1941, l’attrice era nata a Tokyo il 1° luglio 1916 da genitori trasferta d’affari.

Dotata di innata eleganza e “calma” bellezza (stereotipo condiviso, per popolarità, con le coetanee Deborah Kerr e Yvonne De Carlo) , Olivia venne scritturata dalla Warner Bros a meno di venti anni e fu protagonista di una lunga e  serie di film d’avventura – tra cui “Capitan Blood” (1935), “La carica dei seicento” (1936), “La leggenda di Robin Hood” (1938), “Gli avventurieri” (1939), “I pascoli dell’odio” (1940), “La storia del generale Custer” (1941) – quasi sempre partner dell’arci- divo Errol Flynn. Essendo (si narra) sentimentalmente legata dapprima  con James Stewart, poi con  John Huston, infine con Clark Gable. La vera notorietà (comunque meritata) giunse per la de Havilland col ruolo di Melania Hamilton in “Via col vento”,  inficiata da gossip e cronache familiari (spiattellate ai fans) inerenti la rivalità e i pessimi rapporti umani che la “legarono” alla sorella Joan Fontaine.

La critica e la storia cinema la “consegnano” (inoltre e non a torto) quale  interprete ideali di figure femminili “dotate di abnegazione e spirito di sacrificio per l’uomo amato, disponibili all’infelicità personale pur di non ostacolare le ambizioni maschili” (così appare nei film di Michael Curtiz). Diversamente da come ella emerge dalle opere  di Robert Siodmak, ove specifiche  zone d’ombra imbastiscono  personaggi “pervasi dalla profonda e segreta frustrazione di non essere compresi e amati”. Sino a ricoprire, grazie a William Wiler (“L’ereditiera” del 1949) “il ruolo di donna impassibile, impietosa e crudele, perdendo la sua aria perennemente smarrita, languida, da educanda”. Interpretazione che le valse il Premio Oscar quale migliore attrice protagonista. Anelata statuetta che era stata già “sua”, nel 1946, con “A ciascuno il suo destino” di Mitchell Leisen.

Elegante, bellezza delicata, De Havilland venne scritturata dalla Warner Bros. per sette anni (quando non aveva ancora venti anni) e fu protagonista di una lunga e  serie di film d’avventura – tra cui Capitan Blood (1935), La carica dei seicento (1936), La leggenda di Robin Hood (1938), Gli avventurieri (1939), I pascoli dell’odio (1940), La storia del generale Custer (1941) – ben otto dei quali al fianco del divo Errol Flynn. A Hollywood fiorirono le voci sui flirt con James Stewart, col miliardario e produttore Howard Hughes, col regista John Huston, con Clark Gable. La grande popolarità arriva col ruolo di Melania Hamilton in Via col vento, ma quella di Olivia de Havilland – nata a Tokyo dove il padre lavorava come avvocato – è una storia da romanzo per la rivalità con la sorella Joan (più piccola di quindici mesi), che scelse il  nome d’arte di Fontaine. Fin dall’infanzia e per tutta la vita ebbero rapporti difficili e furono rivali. Nel 1942 Joan Fontaine la spuntò sulla sorella maggiore nella conquista dell’Oscar come miglior attrice protagonista,  al quale  quell’anno erano entrambe candidate: vinse per Il sospetto di Hitchcock, mentre Olivia de Havilland era in corsa per La porta d’oro di Mitchell Leisen.


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