Strage di giornalisti in Messico

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Il corona-virus in questo caso non c’entra. Il virus che falcia vite di giornalisti in Messico come un’epidemia nella pandemia si chiama narco-corruzione. Precede di molto il Covid19 e continua a far strage, malgrado le fallaci promesse del governo di Andrés Manuel Lopez Obrador. Sono tanti gli operatori dell’informazione che ne restano vittime, a tal punto da generare confusione nei numeri persino negli stessi organi che ne danno notizia. Per l’argentina Infobae dall’inizio del 2020 sono 3, lo riporta anche La Jornada, che però in un’altra pagina afferma invece che sono il doppio, così come la commissione nazionale per la difesa dei diritti umani (CNDH): 6, fornendone i nomi. E il quotidiano nazionale di Città del Messico ne è stato colpito direttamente: tra gli assassinati c’è uno dei suoi più noti corrispondenti, Javier Valdez, e a 3 anni dalla morte le indagini stanno a zero.

Lo avevo conosciuto personalmente anni addietro insieme alla famosa scrittrice e giornalista messicana di origine polacca Elena Poniatowska, da oltre mezzo secolo impegnata a denunciare la corruzione e la violenza che dall’infame notte del massacro di piazza Tlatelolco (1968) spietatamente percorrono il Messico come un’Apocalisse. Valdez aggiungeva che la crudeltà della repressione di stato è andata nel tempo confondendosi con quella del narcotraffico e nell’immensa provincia messicana ben più di quanto possa percepirsi nella capitale è divenuta una dittatura del male. Qui sta la radice del dramma, che è socioculturale e politico, quindi impossibile da sradicare o anche soltanto circoscrivere con azioni militari e di polizia giudiziaria, anche nei rari casi in cui queste non sono inquinate in partenza dalle infiltrazioni della grande malavita organizzata nelle strutture dello stato.

Sarebbero oltre 200 i giornalisti uccisi negli ultimi dieci anni. Un numero immenso, superiore a quello dei morti nello stesso periodo sui tutti i fronti internazionali di guerra. Ed è un conto approssimativo, come abbiamo detto. Perché in Messico e in tutto il Centramerica la professione è poco regolata e neanche la FAPERME, la Federazione delle diverse associazioni regionali dei giornalisti messicani sa con certezza quante sono le persone che la praticano, soprattutto come free-lance. Il diffondersi dell’informazione digitale, inoltre, ha moltiplicato testate, siti, blog e malgrado la crisi dell’informazione cartacea ben presente ovunque, perfino i fogli locali a carattere d’incerta periodicità. Spesso a livello nazionale non se ne avverte neppure l’esistenza. Ma sul posto la denuncia colpisce interessi precisi, che nel clima di asfissia democratica determinato dalle complicità reagiscono colpendo a morte.

Sulla frontiera con gli Stati Uniti i diversi cartelli del narcotraffico spesso in guerra tra loro, uccidono anche soltanto per ribadire che sono loro a dettare legge. Nella periferia di Ciudad Juarez, Lara Contreras sarebbe stata appunto usata come esempio. Jorge Armenda, a Ciudad Obregon, nello stato di Sonora, l’hanno ammazzato perché insisteva a cercare notizie sulle collusioni del locale cartello e per dimostrare che la scorta di polizia cui l’aveva affidato la magistratura non serve a niente. Alcuni, come Victor Fernandez Alvarez non lontano da Acapulco, nel Guerrero, prima di essere finito l’hanno tenuto sequestrato una settimana. Volevano sapere qualcosa che lui non gli ha detto. Poiché adesso minacciano la famiglia. Sono i casi più tragici e recenti. Ma i giornalisti non cedono e ogni giorno altri giovani si affacciano sul web con nuove e documentate denunce.


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