Stop al sensazionalismo sul coronavirus. Abbiamo bisogno di un giornalismo di servizio

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Primi anni ‘90. Brianza. In un capannone abbandonato erano state nascoste le ruspe che servirono per rimuovere la terra inquinata dalle diossine uscite dall’Icmesa di Seveso. Accanto a quei macchinari immobili, gettate a terra con la speranza che marcissero, centinaia di cartelle cliniche degli abitanti delle tragicamente famose Zona A e Zona B di Seveso. Adesso che il reato è prescritto si può raccontare: per dimostrare questo occultamento di prove due consiglieri regionali lombardi, Molinari e Veltri, spaccarono un vetro di quel deposito. Le fotocopie di alcune cartelle cliniche le passarono ad un pool di giornalisti che insieme ad alcuni medici cercarono di dimostrare il legame tra quelle diossine del 1976 e l’aumento dei casi di tumore registrati anni dopo. Forte di quei dati – un po’ artigianali – andai da un luminare dell’epidemiologia, il professor Bisanti, che … me li smontò in un minuto. Con ferma gentilezza disse: “quel pezzo di Brianza è stato nel dopoguerra il regno dei mobilifici: con i mezzi scientifici a disposizione – disse il professore – non riusciremo a dimostrare che gli aumenti di casi di tumore sono dovuti alla diossina uscita dalla ciminiera dell’Icmesa o dalle resine che quegli operai hanno inalato per anni”. Punto.

Ci ripenso ogni volta che sento pontificare dalle tivù spiegazioni geniali, dati di fatto smentiti il giorno dopo, numeri snocciolati come se fosse la tombola. L’epidemiologia è una cosa seria, non è un videogame, dietro ognuno di quei numeri c’è una persona con il suo strascico di relazioni, affetti, paure.

Il giornalismo non può sensazionalizzare tutto, compreso il coronavirus, senza conseguenze. Non ho ricette, però un po’ di competenza e buon senso non guasterebbero. Non guasterebbero, ad esempio, nel commentare il calo momentaneo dei decessi per coronavirus registrati il 22 e il 23: mentre sto scrivendo questo pezzo il tweet del collega Luca Gattuso ci riporta al realismo: 743 morti nelle ultime 24 ore, pericolosamente vicini al picco dei 793 registrati il primo giorno di primavera. Ci sono spiegazioni razionali? Sì, ma sono complesse, risentono anche di un certo bizantinismo nella raccolta dei dati e in ogni caso non possono essere i numeri di uno o due giorni a stabilire la tendenza di una pandemia. Anche in questo caso – parliamo forse della crisi più drammatica vissuta dall’intero pianeta dal dopoguerra – ci scappa la frizione: parliamo di eroi, untori, zone rosse, coprifuoco, regime, guerra come se i giornalisti dovessero essere lo specchio della società e non, invece, dei civil servant che aiutano a chiarire, sciogliere dubbi, svelare le storture. Un giornalismo di servizio, non un giornalismo al servizio.


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