Pertini, il presidente partigiano 

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Fa piacere rendersi conto che, a trent’anni dalla scomparsa, Sandro Pertini non sia stato dimenticato. Il presidente partigiano, costretto a subire angherie, vessazioni, umiliazioni, condanne e tormenti d’ogni sorta a causa del “barbaro dominio fascista”, come lo definì a suo tempo, divenne un leader naturale grazie a un carisma, a una tempra e a un coraggio fuori dal comune. Un combattente nato, un rivoluzionario più che un politico tradizionale, estraneo ai riti e ai cliché tipici della nostra classe dirigente, refrattario alla mediazione, convinto che il fascismo non fosse un’opinione ma un crimine, la negazione di tutte le opinioni e della stessa dignità umana.

Sandro Pertini era nato a Stella il 25 settembre 1896. Ha attraversato quasi per intero il Secolo breve, subendo le conseguenze di due guerre mondiali e rendendosi protagonista della rinascita di una Nazione sconvolta dalle bombe, dall’odio e dalla follia di un tempo di orrore di cui è doveroso serbare la memoria.
Pertini entrò a Milano il 25 aprile 1945 e fu lui a lanciare in radio il proclama “Arrendersi o perire” rivolto ai fascisti.
Socialista, amico di Turati, di cui agevolò la fuga nel ’26 insieme a Parri, Oxilia e Rosselli, conobbe Gramsci nel carcere di Turi, assistendo al suo logorio fisico e al tragico deperimento della sua salute.

Per sopravvivere, negli anni dell’esilio in Francia, aveva accettato i lavori più umili, poi il confino, la condanna a morte, la fuga rocambolesca da Regina Coeli insieme a Saragat, la riconquista della democrazia e della dignità.
Socialista, è bene ribadirlo, eletto vice di Nenni al congresso di Torino nel ’55 e presidente della Camera nel ’68.
Un uomo ruvido, sanguigno, dotato di un caratteraccio ma, al tempo stesso, carico d’amore per il prossimo, a cominciare dai giovani, cui si premurò di non far mai mancare il suo affetto e la sua vicinanza.

Venne eletto presidente della Repubblica l’8 luglio 1978, due mesi dopo l’assassinio di Aldo Moro, asserendo nel discorso d’insediamento che, se non fosse stato ucciso, quel giorno sarebbe stato al suo posto. Aveva ottantadue anni ma fu tutt’altro che un notaio. Intervenne eccome, più e più volte: per stigmatizzare l’omicidio di Guido Rossa e il tacito sostegno di alcuni compagni all’azione criminale dei brigatisti, per condannare le inadempienze e i ritardi del governo nei giorni del terremoto dell’Irpinia, per portare solidarietà e conforto alla famiglia di Alfredino Rampi quando il piccolo cadde nel pozzo artesiano di Vermicino, per festeggiare insieme agli Azzurri nel giorno di gloria di Madrid, riportandoli in Italia a bordo dell’aereo presidenziale e concedendosi una memorabile partita a scopone con Zoff, Causio e Bearzot. Intervenne persino a favore del trasferimento di Zico all’Udinese, oltre che in mille questioni riguardanti la politica estera e rilasciando una splendida intervista televisiva all’amico Enzo Biagi.

Anticonformista, polemico, sempre sul ring, indomito e ardimentoso come quando aveva vent’anni, fu un simbolo e un punto di riferimento per tutti, un grande amico di papa Wojtyla, pur essendo estremamente laico, e uno strenuo avversario di molti papaveri di una Repubblica che andava lentamente e inesorabilmente spegnendosi in un’agonia democratica sulla quale non si è ancora riflettuto abbastanza.
Fu anche il presidente dei giorni della strage di Bologna e del ritrovamento degli elenchi della P2 a Castiglion Fibocchi, nella villa del “venerabile” Licio Gelli. Non a caso, nel giugno dell’84 si recò a Padova per seguire da vicino lo strazio di Enrico Berlinguer e ne riportò a Roma la bara a bordo dell’aereo presidenziale, partecipando ai funerali con una commozione che ancor oggi lascia senza parole. Una scelta di campo: netta, definitiva, eclatante, com’era nello stile del personaggio.
Se ne andò a novantatre anni, nella sua casa romana a Fontana di Trevi, dove aveva abitato anche negli anni in cui era stato al Quirinale, rifiutando ogni sfarzo, compresi i funerali di Stato.
Una vita esemplare, senza cedimenti, sempre al servizio dei suoi ideali e del popolo italiano. Un presidente innamorato del suo Paese e ricambiato da un affetto spontaneo che dura tuttora.
Sandro Pertini, trent’anni dopo. La sua grandezza è immortale.

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