Natale 2019 | La letteratura russa ieri e oggi

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Il Giocatore di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. E’ stato scritto in meno di un mese e sotto la pressione di un editore già pronto a fregarlo se il testo non fosse stato consegnato nei tempi concessi, un anno per la verità, che il Nostro invece utilizzò per la revisione di Delitto e castigo. La situazione economica di Dostoevskij è disastrosa, il gioco d’azzardo è diventato una vera e propria malattia e proprio dalla coscienza lucida e distaccata di un vizio al quale si abbandonerà per tutta la vita, nasce questo godibilissimo romanzo breve, che diverte anche quando affronta la rovina spirituale e materiale dei suoi personaggi. Bisogna però superare la delusione prodotta dalle prime pagine, perché l’opera parte un po’ in sordina per crescere pian piano fino ai deflagranti capitoli centrali nei quali il personaggio indimenticabile della nonna siede al tavolo da gioco dissipando gli averi che i parenti ingordi e inetti, in speranzosa attesa di un telegramma che annunziasse la sua dipartita, avevano già sognato nelle proprie tasche.

Il luogo è una immaginaria cittadina termale tedesca, Roulettenburg (ma se andate a Baden Baden non dubitano che si tratti della loro splendida città), dove bere le acque della salute o compiere lunghe passeggiate terapeutiche sono occupazioni del tutto secondarie, mentre la passione si accende invece nel Casinò, in cui una torma di disperati si mescola a dame annoiate, nobili decaduti, parassiti in cerca di nuove vittime, usurai mascherati da gran signori, fanciulle disposte a sperperare le vincite dell’ultimo sciocco pollastro appena abbindolato. Denaro e amore sono i motori dell’azione, il primo vissuto come unica panacea in grado di risollevare le sorti dei giocatori o di imprimere una svolta concreta ad esistenze piatte e grigie, il secondo occupa i pensieri di uomini senza qualità disposti ad essere usati e umiliati da rappresentanti del gentil sesso ciniche e volubili.

Edvard Munch. Tavolo della roulette a Monte Carlo, 1892

Lo sguardo acuto dell’autore regala anche una passerella assai poco edificante di rappresentanti delle varie nazioni che si incontrano nell’amena cittadina: dai francesi ai tedeschi, dai polacchi ai russi, tutti mostrati nei punti deboli, nelle caratteristiche negative, nei lati oscuri, tutti radiografati in modo impietoso, nessuno escluso, nemmeno il protagonista/narratore che descrive le febbrili dinamiche di ubriacante follia e di disperato sconforto che si creano intorno alla roulette con la precisione e la consapevolezza dettate dalla conoscenza diretta del demone del gioco.

Una panoramica desolante esposta con l’amaro umorismo di chi vede con chiarezza il proprio volto nello specchio deformante che ha appena realizzato.

...per quanto poi riguarda le perdite e le vincite, gli uomini, allora, non solo alla roulette, ma ovunque, cercano di vincere o portar via qualcosa l’uno all’altro. Che poi il guadagno o il lucro siano in generale una cosa sporca, questa è un’altra questione. Non sarò comunque io a risolverla qui.

Anna Karenina di Lev Tolstoj. Tempi lunghi e distesi, ovviamente, per leggere questo grande classico che solo apparentemente concentra la sua attenzione sul personaggio eponimo.

La nota vicenda dell’infelice amore di Anna per il vanesio Vrònskij è in realtà solo uno dei nuclei tematici dell’opera che vive e si fortifica attraverso le vicende parallele di altre due coppie, quella costituita dalla giovane Kitty e dal posato Lévin e quella formata da Dolly e Oblònskij, cognati di Levin.

Proprio quest’ultimo personaggio è il perno sul quale ruota la visione d’insieme dell’autore, il suo alter ego, il portavoce di un’interiorità dinamica e profondamente lacerata che opacizza le personalità degli altri uomini, dediti ai piaceri, alla carriera, ad un’arte sterile di puro autocompiacimento, ad elucubrazioni ideologiche sulle quali l’autore fa pesare il proprio giudizio. Dalla dimensione corale del romanzo, che supera le vicende personali dei protagonisti per amalgamarle in una complessa composizione d’insieme, emergono le voci e i volti della grande massa contadina, degli ufficiali dell’esercito, dei nobili oziosi e parassiti e di quelli incuriositi e stimolati dalle novità nella delicata fase di passaggio vissuta dalla Russia all’indomani dell’abolizione della servitù della gleba, la fase di trasformazione che avrebbe dovuto modernizzare un sistema restìo ai cambiamenti e legato ai privilegi di classe.

Stati d’animo, sensazioni, riflessioni dei personaggi sono sviscerati con precisione da un narratore onnisciente che consente al lettore di affacciarsi nell’interiorità di ciascun personaggio, di scrutare ogni piega dell’animo, di conoscerlo, insomma, come se fosse una persona vera e viva con la quale intrattenersi in piacevoli conversazioni davanti ad un buon caffè.

Certo, tra tutte le donne presenti nella vicenda, Anna svetta per la sua superiore capacità di inabissarsi nella passione, per il dolore scaturito dalle sue due maternità, la prima frustrata e recisa dall’ex marito, la seconda involontaria e poco gratificante, sicuramente mai compensatoria rispetto alla precedente. La rinuncia ad una vita agiata e rispettabile in cambio di una passione violenta rende vero e pulsante il personaggio “colpevole” molto più dei personaggi positivi, le sorelle Dolly e Kitty. Pur nella consapevolezza della precarietà del suo amore e dell’imminente catastrofe alla quale è destinato – solo a tratti addolcita da un ottimismo disperato che coincide con un animale istinto di sopravvivenza – la donna si getta a capofitto in un’esperienza che le regala il gusto per la vita, la percezione di un corpo capace di desiderare, l’ascolto di un battito che segue i ritmi frenetici dell’eccitazione e avverte i morsi feroci della gelosia.

Gørild Mauseth in ‘Karenina & I’

Anna morirà volontariamente, pensando in tal modo di punire se stessa e il suo ingrato amante, ma in realtà la donna è travolta dalla propria vitalità insopprimibile che non tollera confini e limitazioni e l’incolore Vronskij, per il quale non si riesce ad avvertire un briciolo di compassione, dovrà fare i conti con un suicidio che imprimerà una svolta di cupa espiazione alla sua tragica avventura.

Dopo, sulla sventurata coppia cala il silenzio. La vita continuerà a scorrere dopo aver distrattamente raccattato le macerie e dopo averle gettate in un angolo nascosto. Di tanta passione non resterà nulla, di tanta felicità neanche una sbiadita traccia. Come ciò sia possibile è un mistero, uno tra i tanti misteri che la vita porge quando spegne astri troppo luminosi o che non hanno avuto il tempo di risplendere.

L’uscita di scena vera e propria appartiene a Lèvin. La ricerca del senso e del fine ultimo dell’esperienza terrena, che assilla quest’uomo d’azione e di pensiero, si ricompone in una spiritualità intensa che non prevede premi e assoluzioni, quella che segnerà l’opera di Tolstoj nell’ultima fase della sua vita.

Questo nuovo sentimento non mi ha mutato, non mi ha reso più felice, non mi ha improvvisamente illuminato, come io fantasticavo…Se questa sia o no la fede io non lo so, non so cosa sia, ma questo sentimento è penetrato in me attraverso le sofferenze e si è stabilito saldamente nella mia anima.

Lauro di Evgenij Vodolazkin, Elliot Edizioni. Ambientato nella metà del XV secolo, questo romanzo pluripremiato, scritto da uno degli autori di punta della letteratura russa contemporanea, paragonato per la potenza delle raffigurazioni e per le competenze storiche al nostro Umberto Eco, segue la parabola umana di Arsenio, orfano cresciuto con il nonno in un’izba vicino al cimitero del villaggio di Rukina e straordinario interprete dello spirito del suo tempo.

Vodolazkin ricostruisce con grazia sorprendente e icastica precisione la storia del suo singolare protagonista, dalla nascita alla morte, con una narrazione piana e scorrevole impreziosita qua e là da immagini poetiche e profonde riflessioni filosofiche. Il linguaggio, delicato e potente ad un tempo, porge l’ingenuità, il dolore, la tensione spirituale, il male, l’amore con uno stile e una scelta lessicale di perfetta mimesi emotiva e aderenza agli ambienti. La presenza di un narratore eterodiegetico, sotto il profilo delle possibilità empatiche, nulla toglie al lettore che sente, percepisce, si immedesima e palpita come se a soffiare nelle sue orecchie quella storia siano il protagonista e i tanti personaggi che pian piano incrociano il suo cammino. Si conosceranno, dunque, il nonno Cristoforo, erborista e guaritore di cui erediterà l’arte, la giovane Ustina, fanciulla amata con un trasporto che supera i confini della ragione e oltrepassa il limite invalicabile della morte, i tanti malati che riceveranno beneficio dalle sue parole o semplicemente dal tocco delle sue mani, i folli personaggi con i quali per una parentesi della sua vita condividerà abitudini e stravaganze, i pellegrini con i quali si recherà in Terra Santa, le ieratiche figure degli starec con cui mantiene un intenso dialogo spirituale al di là delle barriere spazio-temporali.

Arsenio, dunque, dopo essere stato guaritore con i soprannomi di Rukinese e di Medico, diverrà un “folle in Cristo”, prendendo il nome di Ustino, poi tornerà ad essere Arsenio e poi, da monaco, verrà chiamato Ambrogio (in memoria di un amico scomparso), e infine, giunto al grado più alto del percorso mistico, quello di schima, gli verrà attribuito il nome di Lauro, perfetto per il riferimento alla pianta curativa e sempreverde che simboleggia la vita eterna. Tanti nomi che corrispondono a tante vite.

La colpa è il motore dell’azione, quella colpa che è il fulcro dell’universo medievale. Il grande medico acclamato dalle folle non è riuscito a salvare la donna amata che è morta dando alla luce un bambino già morto. La colpa e l’amore, indissolubilmente legati, e il tentativo disperato di trovare la salvezza, per lei e per il bambino, non per se stesso, guideranno le scelte dell’uomo.

La natura, con la sua forza e con la sua violenza, domina paesaggi sempre cangianti. Ma il viaggio, inteso come spostamento fisico, si sostanzia di un altro elemento altrettanto seduttivo, lo slittamento del tempo affidato ad Ambrogio, un singolare italiano dotato di virtù divinatorie che cerca di svelare i misteri sulla fine del mondo, avvertita come imminente, con sofisticati calcoli basati sulla sacre scritture. L’espediente consente di aprire varchi sul futuro e di riflettere sulla dimensione temporale e sul senso della vita.

La fine del mondo però non arriva e la storia di Arsenio si sfrangia e si ramifica come il delta di un fiume dopo un percorso molto accidentato. I tanti volti incontrati hanno lasciato nella sua memoria un’impronta, gioiosa o dolorosa, finché la vita, quell’impetuoso susseguirsi di fatti slegati eppur intimamente connessi, non gli offrirà l’ultima occasione, che nelle sue vecchie mani diverrà l’arma del riscatto lungamente atteso.

Anche la storia non ha scopo, come non ce l’ha tutta l’umanità. Solo un uomo può avere uno scopo. E anch’esso non sempre.

La tormenta di Vladimir Sorokin, Bompiani editore. Apparentemente leggero e decisamente surreale questo romanzo breve del camaleontico Sorokin è uno scherzo letterario di raffinata crudeltà intessuto sul racconto lungo di Lev Tolstoj Il padrone e il lavorante, in cui le dinamiche tra classi sociali differenti si sviluppano con diverse modalità ed esiti.

In realtà c’è poco da sorridere, perché Sorokin porta alle estreme conseguenze la sua analisi politica di una Russia al collasso e, dopo aver indagato nei precedenti romanzi sulle storture del totalitarismo, si sofferma su uno scalcinato futuro, non identificabile attraverso una datazione precisa, che volge lo sguardo al passato in una commistione esilarante e grottesca (definita dal critico Mark Lipoveckij “retrofuturo”) esaltata da uno stile che filtra e raggela ogni possibile emozione.

Platon Il’c Garin è un coscienzioso medico di provincia che deve raggiungere in breve tempo il villaggio di Dolgoe per vaccinare gli abitanti decimati dalla peste nera boliviana (la droga, senza troppi sforzi di fantasia) che prima di uccidere rende gli uomini simili a zombie. Alla stazione di posta non trova cavalli disponibili ed è costretto a rivolgersi a Raspino, un tenerissimo personaggio che vive trasportando il pane da un villaggio all’altro con un singolare mezzo di trasporto, la propulsoslitta, azionata dalla forza motrice di cinquanta minuscoli cavallini. A complicare lo spostamento una tormenta di neve che non accenna a placarsi.

Paesaggi ancestrali e ambientazioni d’epoca convivono dunque con bizzarrie futuribili e scoperti rimandi letterari (Dostoevskij, Tolstoj, Gogol, Cechov) per inscenare l’incubo contemporaneo che incombe sulla Russia come una bufera intenta a travolgere con il suo bianco manto ogni traccia di umanità e resistenza. Il rischio del congelamento è sempre in agguato, reale o metaforico non importa, ciò che conta è che quel gelo penetra nelle azioni dei personaggi e nei pensieri del lettore e ne paralizza il sorriso, perché presto risulterà evidente che la meta sempre più vicina paradossalmente si allontana fino a configurarsi semplicemente come uno stimolo ad andare sopravvissuto alla neve, al ghiaccio e al vento, un impulso categorico al compimento di un dovere per entrambi i viaggiatori.

La categoria umana – e quella animale – in questo futuro impastoiato nel passato si è frattanto frammentata, per cui accanto ad uomini di dimensioni normali vivono giganti e lillipuziani, gli uni ridotti a meri esecutori di lavori di fatica gli altri perfidi, potenti e prevaricatori. I concetti di grande e piccolo quindi si invertono sul piano della considerazione sociale e trovano un corrispettivo, ancora capovolto, su quello dei valori da perseguire, per cui la grande missione del medico si riduce a puro movimento fisico, lotta contro le intemperie, ottusa ostinazione.

Il lungo ed estenuante cammino dei due personaggi è costellato da incontri gradevoli e accoglienze perturbanti – come quelli con la prosperosa mugnaia, che si concede al dottore senza riserve, e con gli sconcertanti vitaminder, che dispensano allucinazioni ad alto costo dentro accampamenti edificati con feltro viviparo – e da inciampi e scontri con oggetti/simbolo, come la piramide di cristallo e il pupazzo di neve dal grande fallo, in una via crucis di piaceri, sofferenze e speranze che culmineranno infatti con un supremo sacrificio foriero di salvezza.

Sbriciolate nella narrazione scorrevole e guizzante, come le bricioline di Pollicino, riflessioni morali e metafisiche che allertano sul contenuto estremamente serio del romanzo, sulla voglia di scuotere coscienze intorpidite. L’incubo allucinatorio del dottore, posto a friggere in olio bollente sulla pubblica piazza di fronte ad una folla plaudente, e il delirio mistico che ne deriva disturbano nonostante lo stile umoristico che sorregge le tante pagine ad essi dedicate e segna quasi una cesura tra gli eventi. Dopo l’euforica e transitoria sensazione di pieno benessere ottenuta dal dottore alla fine del trip, la tormenta, con la complicità di ostacoli sempre più giganteschi, avvolgerà nelle sue spire gli uomini e i loro ridicoli e goffi tentativi di sopravvivenza. E non ci sarà pietà né per il popolano umile e di buon cuore né per il detentore della scienza esatta, con loro tramontano i sogni di progresso ottocenteschi e quelli di un domani ipertecnologico e salvifico dai piedi di sabbia.

E se all’improvviso questa luna splendente crollasse a terra e la vita terminasse, io, in quell’istante, sarei degno di chiamarmi Uomo, perché non avrei deviato dal mio cammino. E questa è un’ottima cosa!

Le donne di Lazar’ di Marina Stepnova, Voland editore. La vita di un genio della matematica e della fisica, raccontata da un’autrice sorprendente e dallo stile versatile e accattivante, attraverso quella di tre figure femminili che ne hanno determinato lo svolgimento e alle quali ha imposto il marchio di una presenza ingombrante e di un nome gigantesco e schiacciante.

Lazar’ Iosifovič Lind è un orfano ebreo agnostico e razionale. Proviene da uno sperduto villaggio, ma lo incontriamo a Mosca, diciottenne, lacero, magro e infestato dai pidocchi, sulla soglia dell’Università a chiedere, anzi quasi a pretendere, un incontro con l’accademico Sergej Aleksandrovič Čaldonov, uomo aperto ed illuminato che si accorgerà immediatamente delle sue doti eccezionali diventandone quindi mentore e amico sincero. La Stepnova, in realtà, non si sofferma sul personaggio eponimo, ma ne costruisce le fondamentali tappe della vita e della carriera attraverso il racconto minuzioso e psicologicamente denso e perfetto delle tre donne che sono le vere protagoniste del robusto romanzo che ha, tra gli altri, il pregio di farsi leggere d’un fiato, di stimolare nel lettore un’arsura che si placa solo bevendone le pagine fluide, chiare e compatte ad ampi sorsi.

Marusja, Galina Petrovna e Lidočka, sono queste le donne di Lazar: la prima è la moglie del suo mentore, molto più anziana di lui ed inutilmente amata di sentimento puro e inestinguibile, la personificazione di ogni possibile virtù femminile che ricambierà il suo amore con affetto materno; la seconda, giovanissima e bellissima ragazza, sposata in età ormai decisamente avanzata, rappresenta invece la sensualità e la perfezione estetica, la bambola capricciosa e fredda da adorare; la terza, mai conosciuta, è la piccola nipote che a cinque anni assisterà impotente al copovolgimento del suo piccolo mondo perfetto e che mendicherà attenzioni e affetto trovando invece gelo e disciplina nel raggiungimento di eccellenze artistiche non desiderate. Il destino di queste donne verrà segnato da eventi improvvisi, da lacerazioni imprevedibili, dai riflessi della grande storia che attraversa la Russia e poi l’Unione Sovietica, dalla rivoluzione bolscevica all’agonia del secolo scorso, eventi e fatti i cui risvolti piombano rapaci o consolatori con conseguenze ineludibili. Costretta da un vile ricatto ad un matrimonio che pone una pietra tombale sul suo sogno d’amore, Galina Petrovna, la perfida e anaffettiva moglie del genio, che non riuscirà nemmeno da vedova a gioire della sua spropositata ricchezza e della conquistata libertà sessuale, è il personaggio più sofferto e riuscito, quello per il quale si può provare compassione a dispetto dell’esibito benessere e dell’irritante bellezza. L’autrice ne porge il rovello interiore, fa avvertire la sua repulsione fisica per quel corpo di vecchio famelico di carne giovane, conduce a provare le sue paure e a respirare il suo terrore, a riflettere sulla mostruosità di un apparato politico disposto, senza ombra di remore, ad immolare esseri umani agli appetiti del Genio, purché questi continui a produrre meraviglie utili al sistema. Tanto tutto si può comprare, con il denaro o con la violenza.

Lindt, dunque, resta avvolto in un mistero che in parte deriva dalla sua natura sui generis, dentro la quale nessuno, neanche l’autrice, può penetrare, e in parte da una scelta precisa, da una manovra tecnica che privilegia il non detto e lo svelamento parziale ottenuto tramite lo sguardo di chi lo vede agire, di chi incrocia il suo fulgido cammino professionale e il suo angusto e infelice percorso umano e affettivo. Osannato dagli alti vertici, prestato alla ricerca pura e all’utilizzo del nucleare a scopi bellici, ricco e privilegiato per il suo status di uomo chiave del governo, Lindt subirà le sue più clamorose sconfitte nell’ostinata ricerca di amori prevedibilmente infelici (una donna felicemente sposata e troppo anziana e una ragazza già innamorata di un altro e troppo giovane), in quelle che si configurano come scelte autopunitive per colpe oscure in cui affiora l’origine semita, prima fra tutte quella sovrabbondanza intellettiva che lo inchioda a responsabilità precise senza vie di fuga.

La regia del romanzo è perfetta come un ingranaggio sofisticato, la fabula, continuamente scardinata dall’uso insistito di analessi e prolessi, non si incrina mai per mancanza di chiarezza e il lettore non solo non ne è disorientato ma letteralmente risucchiato, perché le azioni che possono inizialmente apparire gratuite e prive di logica si rivelano pienamente coerenti alle motivazioni porte dal vissuto e dai piccoli grandi traumi che le hanno determinate. Una cavalcata attraverso il secolo breve in uno dei territori più complessi sotto il profilo sociale e politico, una finestra aperta sui vizi delle gerarchie al potere e sulle aspettative deluse di un popolo – la grande anima dell’Unione Sovietica e della Russia – che si è abbandonato all’ideologia imperante come un figlio ai voleri di una madre esigente. Il divario economico tra intellighenzia al potere e masse spremute e solo parzialmente gratificate divampa tra le pagine ma senza rancore, come una coscienziosa presa d’atto.

Quasi a siglare ulteriormente una tendenza letteraria della scrittura russa contemporanea, anche qui non ci sono vincitori (solo alla giovanissima Lidočka è concesso qualcosa che assomiglia alla serenità e all’amore) e nemmeno il genio resterà immune al triste naufragio e alla morte.

Lindt comprese.

– Dunque è così – disse con voce roca. – E io che pensavo di essere caduto.

Strinse spaventato le dita di Galina Petrovna, come un bambino, come in cerca di aiuto, come se si potesse fare almeno qualcosa, ma si riprese subito e le lasciò la mano. Non importa – mormorò. – Non importa, feygele, non aver paura. A pensarci bene, non è che un esperimento, e per di più molto curioso.


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