Iran, il Natale dei brutti presagi. E denunciare la repressione non basta

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Quello che per noi era il giorno di Natale è stato  una giornata piena di inquietanti presagi per l’Iran, dove il 26 dicembre coincideva con il quarantesimo giorno dall’inizio delle proteste di metà novembre, represse con il pugno di ferro al prezzo della vita di una quantità di vittime che  una recente inchiesta della Reuters, basata su alcune  anonime del ministero dell’Interno, ha portato a circa 1.500: una stima ben più alta di quelle di Amnesty International fino ad allora (circa 300) e dello stesso Dipartimento di stato Usa (circa mille).

Nella tradizione sciita il quarantesimo giorno dalla morte viene commemorato da amici e parenti, ma che questa ricorrenza fosse temuta dalle autorità lo dimostrava il fatto che già il 25 dicembre si erano verificati problemi con le connessioni internet della rete mobile in alcune regioni, suscitando il timore di un nuovo blocco generalizzato come quello che ha tagliato fuori dal mondo gli iraniani nei giorni della peggiore repressione. Sui social girava un hashtag intitolato “Dec.26 2019 – Uprising 2nd wave”,  ma il giorno delle commemorazioni non ha dato luogo alle nuove rivolte che qualcuno si attendeva, scoraggiate anche da massicci schieramenti delle forze dell’ordine nella capitale e in altre città come Tabriz, Sanandaj, Kermanshah, Isfahan e Shiraz.

La vicenda che più continua ad attrarre l’attenzione sui social è quella di Pouya Bakhtiari, il ventisettenne ucciso con un colpo alla testa a Mehrshahr, distretto di Karaj (città a ovest di Teheran), il 16 novembre, mentre partecipava ad una manifestazione insieme alla madre e alla sorella.  Da allora i genitori del ragazzo – ormai quasi una figura iconica di queste proteste – sono stati molto coraggiosi nel denunciare ai media l’accaduto, e  la madre ha firmato con altre madri di vittime della repressione un appello a fare del 26 dicembre una giornata della memoria per i loro figli. L’attenzione delle autorità nei confronti dei genitori di Pouya è arrivata al punto che il 24 dicembre entrambi sono stati arrestati insieme ad altri familiari. La commemorazione del 26 dicembre si annunciava infatti come un raduno tanto numeroso che sarebbe andato ben oltre il cordoglio, per assumere la valenza di un atto politico.

Nell’assenza di dati ufficiali, il problema delle fonti

La repressione delle proteste di metà novembre ha segnato una cesura netta, nella storia rete della Repubblica Islamica, in termini di impiego della forza per reprimere il dissenso nella piazza, e la risposta delle forze dell’ordine non è mai stata così sanguinosa. Lo dimostra appunto il numero delle vittime, 1500 appunto secondo la Reuters, fra cui una ventina di minori e 400 donne. Un numero che non ha stupito chi sta da tempo segue gli sviluppi delle proteste sui social media, che hanno fatto circolare aggiornamenti e video sia durante che soprattutto dopo il blocco di internet da parte delle autorità.  L’inchiesta della Reuters attribuisce l’inasprirsi della repressione ad un ordine della Guida suprema Ali Khamenei (“la Repubblica Islamica è in pericolo, fate qualunque cosa occorra per porvi fine”), emesso in una riunione con alti esponenti delle forze di sicurezza convocata per la sera del 17 novembre, presenti anche il presidente Hassan Rouhani e membri del suo governo. Una decisione in cui tutti avrebbero condiviso la tesi secondo cui era appunto in atto un attacco volto a rovesciare la Repubblica Islamica, partito dai suoi storici nemici esterni (Usa, Arabia Saudita, Israele e opposizione all’estero).

Le fonti anonime della Reuters sarebbero alcuni esponenti dell’’inner circle’ di Khamenei, e in particolare tre rappresentanti del ministero dell’Interno. Ma la vaghezza relativa alle fonti non ha convinto alcuni giornalisti molto informati sulle questioni iraniane. “Come possono giornalisti basati all’estero sapere il numero degli uccisi nei disordini del mese scorso chiamando in causa poche fonti anonime?”, si è chiesta su Twitter Najmeh Bozorgmehr, corrispondente del Financial Times che invece scrive da Teheran –. Inoltre, in quelle proteste le donne non hanno giocato un ruolo importante come invece normalmente accade nelle grandi città. Come possono esserne state uccise centinaia”? Il riferimento è al fatto che le proteste sono state particolarmente estese in alcune aree periferiche e disagiate del territorio: è per esempio il caso del Khuzestan, al confine con l’Iraq, pur ricco di giacimenti petroliferi, e dove vi sono testimonianze di uno dei peggiori eccidi, quello di Mahshahr, con decine di vittime delle armi da fuoco dei Pasdaran.

Le autorità iraniane hanno smentito le cifre della Reuters, ma il caso sollevato dall’agenzia britannica evidenzia le difficoltà di fare informazione sull’Iran e dall’Iran. Chi scrive per media stranieri dall’Iran deve cercare un difficile equilibrio tra il trovare le notizie e darle secondo gli standard della propria testata da una parte, e il salvaguardare la possibilità di continuare a farlo, senza rischiare un mancato rinnovo del permesso stampa rilasciato dal ministero della Cultura, dall’altra. Ma chi scrive di Iran dall’estero, con le relative difficoltà di accesso alle fonti, rischia di essere pesantemente influenzato, nella percezione dei fatti, dal massiccio inquinamento della scena informativa operato da diversi e potenti gruppi di pressione capaci di influenzare non solo i media tradizionali ‘mainstream’ ma anche, e soprattutto, il mondo dei social. Difficile dunque, pur nell’abbondanza dei materiali su internet, sia individuare dati fattuali verificati sia trovarne la giusta chiave interpretativa. E questo tanto più se ragioni linguistiche impediscono di accedere ai media locali in persiano – tra i quali non è mancato negli ultimi anni un relativo pluralismo, che rispetta l’ articolazione del dibattito politico interno. Insomma, scordiamoci che sull’Iran – paese controverso e demonizzato per eccellenza – si possa scrivere senza un ampio grado di approssimazione.  A meno che, programmaticamente, non si scelga un approccio basato su assunti pregiudiziali, faziosi e funzionali a più o meno dichiarati obiettivi politici.

Denunciare gli abusi sui diritti umani è doveroso, ma non basta

Quando i diritti vengono violati e la libertà di stampa viene minacciata, darne notizia è il primo dovere di un giornalista. Ma non basta. Serve uno sforzo di analisi supplementare, bisogna anche comprendere e spiegare il contesto in cui questi abusi vengono compiuti. Non per giustificarli, ma per contribuire con una corretta informazione a trovare la strada migliore perché possano avere fine ed essere puniti. Gridare “al lupo, al lupo” non basta, bisogna capire da dove il lupo sia venuto e come lo si possa fermare. Altrimenti si rischia di incorrere nell’errore di prendere come unità di misura esemplare le nostre democrazie, e guardare ai sistemi politici degli altri paesi semplicemente come democrazie incompiute rispetto a quel modello, per giunta dimenticando il ruolo che lo stesso Occidente ha svolto nel determinare tale incompiutezza.

Quello iraniano rappresenta un caso esemplare in tal senso. Perché certi interrogativi chiave sono sotto gli occhi di tutti. Per quanto male si possa pensare della Repubblica Islamica e del suo sistema di potere, una volta che Teheran è scesa a patti con l’Occidente con l’accordo sul nucleare del 2015, è stato l’Iran o sono stati gli Usa di Donald Trump a tradire gli impegni? Se le sanzioni dirette e secondarie della Casa Bianca non avessero ridoto quasi a zero l’export del petrolio iraniano, sarebbe quella economia arrivata a toccare il suo punto più basso, pur considerando le sue disfunzioni interne e le piaghe del malgoverno e della corruzione? In sintesi, se l’Iran avesse goduto degli investimenti e delle interazioni economiche e politiche internazionali che l’accordo del 2015 prometteva, vi sarebbero state le proteste di metà novembre?

Raccontare le proteste di oggi e la brutale repressione che ne è seguita vuol dire anche avere ben in mente questi interrogativi. E vuol dire comprendere che, per le autorità iraniane, da questi interrogativi parte una narrativa profondamente diversa da quella da noi prevalente, e trovano conferma anche le tesi cospirazionistiche secondo cui le proteste si spiegano non come l’esplosione di un malcontento interno, ma come un tentativo di rovesciare il sistema da parte dei nemici esterni.

Il tradimento di Trump, la sua politica di massima pressione e l’incapacità dell’Europa di contrapporvisi non giustificano certo né uno né 300 né 1500 morti nelle proteste di novembre. Questa strage è stato un crimine tremendo, con cui il sistema al potere da 40 anni ha mostrato il suo volto più spietato. Ma quello stesso sistema, solo quattro anni fa, aveva accettato una mediazione con l’Occidente, e poi si è sentito tradito. E tuttora sta percorrendo tutti i canali diplomatici possibili per salvare l’accordo sul nucleare e contenere un’escalation militare nel Golfo che gli Usa e i loro alleati hanno pesantemente contribuito ad alimentare. Condannare la più cruenta delle repressioni non basta, chi lo fa deve anche sapere che nessuna escalation militare ha aiutato i diritti umani, che giustizia e verità per le vittime si ottengono solo con la politica e la diplomazia. E dato che i giornalisti non sono attivisti, il loro compito è fornire alla pubblica opinione, accanto al resoconto più onesto possibile dei fatti, anche le più oneste chiavi interpretative per comprenderli.


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