Ineluttabilità della corruzione nel film di Sorogoyen ‘Il regno’, dal 5 settembre al cinema

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La narrazione cinematografica della “politica” è spesso affidata ad uno stereotipo: corruzione, sete di denaro, manipolazione dell’opinione pubblica, ricerca del consenso, conservazione del potere ad ogni costo. Inutile dilungarsi in exempla: i primi a venirci in mente – almeno per quelli che consideriamo “classici” – sono “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini (1975) e “Sesso e potere” di Barry Levinson (1997).

In realtà il cinema ha spesso restituito solo lo stato delle cose, anche con intenti edificanti e di critica sociale.

A questo criterio sfugge in parte “Il regno” di Rodrigo Sorogoyen (Premio miglior regia al Goya di quest’anno) che lo ha diretto e sceneggiato insieme a Isabel Peña (che con il regista ha condiviso il premio Goya per la miglior sceneggiatura originale). Un film che vuole raccontare una storia dall’interno, con un taglio quasi documentaristico, senza schierarsi e che proprio per questo – quasi trascendendo la realtà – ce la rivela come paradigmatica.

“Il regno” è un film incalzante, serrato, con una certa aura di noir, quasi sempre sopra le righe che rende disturbante quello “stile” di vita, o meglio ce lo mostra in tutta la sua complessa, doppia e darwiniana fenomenologia. Breafing succulenti in ristoranti di lusso, convention, telefonate-codice in cui comunicare ammiccando, rapide anticamere dai pezzi grossi del partito: insomma i ritmi forsennati e standardizzati della politica post-contemporanea, magnificamente scanditi dal loop continuo e martellante della colonna sonora di Olivier Arson (Premio Goya 2019) che aggiunge agitata cadenza a tutto il film; e l’ennesimo Goya ad Alberto del Campo per il “Miglior montaggio” non arriva certo a caso.

Il protagonista è Manuel Vidal Lopez (un eccezionale Antonio de la Torre, il Rodrigo dello splendido “La isla minima” e giustamente premiato come miglior attore protagonista al Goya 2019), un politico influente in procinto di succedere al vertice del partito di maggioranza, guidato dall’irreprensibile e glaciale Rodrigo Alvarado, segretario nazionale, un ex giudice che si è sempre battuto contro ogni corruzione.

Il cliché di una vita perbene e “politicamente corretta” – l’amore sincero per la moglie e per la figlia – ha il suo rovescio nella scandalosa attività che connota il lato oscuro della sua “professione”: Manuel Lopez Vidal è solo un corrotto che non ha mai avuto il coraggio di guardarsi per quello che è. La sua vicenda precipita inesorabilmente verso l’abisso quando trapela la notizia del suo coinvolgimento in un giro – sequela universalmente nota – di corruzione, concussione e interessata gestione dei rifiuti e di appalti. Impossibile evitare lo scandalo su cui si avventano i media: l’arresto è inevitabile. E’ a questo punto che Manuel sperimenta il lato oscuro e crudele del Potere a cui lui stesso era legato. Nel tentativo di coprire ad ogni costo, di andare avanti come se niente fosse e al contempo tentare di impedire la pubblicazione della notizia dell’arresto, di spostare il denaro e nascondere le prove (tutti miseramente falliti) la sua esistenza diventa una guerra di tutti contro tutti: gli “amici” del partito – almeno tali fino a quando c’erano le tangenti da spartire – si defilano, i vertici cercano un capro espiatorio, lungo una asfissiante girandola di incontri mancati o disattesi.

Lo stesso faccia a faccia coi pezzi grossi del partito è una finzione a doppio fondo: “solo uno show – confessa a Manuel la presidente del partito Asunción Ceballos (una più che convincente Ana Wagener) anche lei coinvolta, laido e rivoltante “animale” politico – per quell’idiota del Segretario nazionale”.

Saltano dunque poco a poco per Manuel tutte le possibilità: la sostituzione di giudici “antipatici” con altri compiacenti, la protezione mediatica dello stesso partito, il maldestro tentativo di furto di documenti compromettenti in casa di un ex compagno. Ma tutti fanno fronte comune contro Manuel che diventa un pericolo per il sistema: lo scandalo infatti “potrebbe far saltare tutto, ovvero distruggere il paese”, perché in fondo – sottolinea la battuta più disarmante del film – il Regno è “una macchina oleata dai tempi dei nostri nonni”.

In una sarabanda di ricatti reciproci e di reciproci tradimenti, Manuel, ormai con le spalle al muro, decide allora di giocare la carta dell’autodenuncia in diretta nella trasmissione condotta da Amaia Marín (Bárbara Lennie) una giornalista capace e intelligente, al corrente della corruzione che imperversa nel partito e in attesa dell’occasione per smascherare tutti.

Lopez Vidal offre in pasto al pubblico le prove scottanti sui quindici anni di corruttele con l’intento far crollare quel sistema che dopo averlo coccolato lo ripudia: ed è qui che la regia di Rodrigo Sorogoyen gioca la sua carta a sorpresa.

L’intervista è un capolavoro di dissimulazione e di bieco realismo: “chi è al Potere – si costringe ad ammettere Manuel – protegge il Potere” e così il meccanismo perverso del Regno si immunizza additandolo come l’unico responsabile: anche la giornalista pare dipendere dalla longa manus di un sistema inattaccabile, anche lei strumento concepito dalle stesse persone che Manuel sta tentando invano di smascherare. Il climax del Potere è mostrato in tutta la sua logica perversamente economicista: alla fine importa soltanto l’andamento dei profitti: la stessa libertà di informazione è solo quella di “fare arrabbiare la gente quanto basta perché quei signori dell’Ibex 35 (l’indice della borsa di Madrid) restino ai propri posti nei secoli dei secoli.”

Nonostante l’appassionata performance di Amaia che tenta di sottrarsi alla logica feroce di Manuel innescando una luminosa reprimenda, “Il regno” lascia criticamente sospeso ogni giudizio e la sequenza finale, pericolosamente in bilico, rimanda indirettamente a quella conclusiva de “Tutti gli uomini del presidente”: irriducibilità del potere ad ogni possibilità di controllo (e di auto-controllo), potere assoluto dei media che di quello sono un sottoprodotto. Ma ci dice forse qualcosa in più: il pericolo non è solo l’assuefazione ai maneggi dei corrotti e dei corruttori ma l’idea dell’ineluttabilità del loro comportamento.

Forse in politica, nonostante gli anni, è cambiato assai poco: “Il regno” è lì a ricordarcelo ferocemente.


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