La rivoluzione di Franco Basaglia: come l’impossibile è diventato possibile. E perché ce n’è ancora tanto bisogno

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Che Trieste fosse la “città dei mati”, e che con mato non s’intendesse solo la persona adulta di sesso maschile, perché è così che li chiamiamo gli uomini dalle mie parti, io triestina figlia di un ciociaro e di una veneta arrivati nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia alla fine degli anni Sessanta ho cominciato a scoprirlo affacciandomi alla così detta età della ragione, quando a scuola ho imparato anche il dialetto già fortemente contaminato da questa rivoluzione partita proprio da qui. Che Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano promotore di questa rivoluzione, non fosse da tutti i miei concittadini considerato un benefattore dell’umanità, mi fu ben presto altrettanto chiaro. Ma con me, che pure non avevo in casa un terreno particolarmente favorevole, godette di una raccomandazione speciale. Il mio primo incontro con Franco Basaglia, infatti, è avvenuto attraverso don Mario Vatta, il fondatore della Comunità di San Martino al Campo di Trieste, il prete degli ultimi, se mai avesse bisogno di una presentazione. Un incontro che, considerata la mia data di nascita (1969, un attimo prima del suo arrivo a Trieste) e la sua morte prematura, non poteva che essere virtuale.

Due le parole chiave usate da don Mario che hanno condizionato, positivamente, il mio approccio alla riforma psichiatrica, ma che si sono rivelate determinanti per interpretare l’opera e il pensiero di Basaglia anche oggi, a quarant’anni di distanza da quella rivoluzione: persona e dignità. Due valori che non hanno appartenenze e che rientrano in quelle evidenze etiche comuni non più di moda, gli unici valori non negoziabili a mio avviso ammissibili. Tutta la politicizzazione che della chiusura del manicomio era stata fatta, e che di tanto in tanto nonostante tutto riemerge anche ora, cadeva in frantumi davanti a una galleria di volti in carne e ossa che ti guardano e inevitabilmente ti interpellano, ti chiamano in causa. Persone sofferenti davanti alle quali lo psichiatra veneziano non riusciva a starsene con le mani in mano: come racconta don Vatta nel suo libro “L’anello al dito. Una vita sulla strada” (Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995), «Franco Basaglia era uno psichiatra che di fronte alla follia è riuscito ad interrogarsi continuamente, cercando di vedere se era possibile fare qualcosa di diverso da quanto si faceva nei manicomi per ridonare dignità umana a questi pazienti dimenticati, riuscendo a coinvolgere in questo tentativo non solo i suoi collaboratori, ma anche i pazienti e i familiari dei pazienti», nella convinzione che in ogni persona, per quanto oppressa dalla sofferenza psichica, c’è comunque una parte sana. L’idea — racconta Alberta, la figlia di Franco, ne “Le nuvole di Picasso” (Feltrinelli, Milano 2014) — era che tutti, proprio tutti – maschi, femmine, matti, malati, bambini, bambini malati – dovevano avere una possibilità per poter vivere la loro vita. La malattia c’è, non la si nega, ma il fatto che ci sia non deve impedire alla persona in questione di poter vivere e agli altri intorno di poter stare con lei».

È l’articolo 3 della nostra Costituzione e il cuore di tutta la nostra Carta, che sin dal principio esalta la persona, i suoi diritti, la sua dignità, e dove tutti è una parola chiave per leggere il nostro codice, che non riserva a nessuno privilegi di alcun genere, perché il suo obiettivo è la cura di tutti, appunto.

La cura di tutti. Ma proprio tutti. Non di tutti quelli che sono (o sembrano) normali. Di tutti quelli che rientrano nelle convenzioni sociali. Di tutti quelli che corrispondono allo schema del cittadino italiano. Tutti significa tutti e comprende anche i matti, fino a quarant’anni fa considerati non-persone, «pericolosità da isolare o mera esistenza animalesca da relegare e dimenticare», come scrive Claudio Magris nella prefazione a un libro dedicato a Basaglia (“Basaglia. Una biografia”, di Francesco Parmegiani e Michele Zanetti, Lint editoriale, Trieste 2007). Non dunque scarti dell’umanità, incidenti di percorso, da segregare dalla società e dalla comunità umana, — sono sempre parole di Magris — bensì persone, che nella loro temporanea o cronica debolezza conservano piena dignità.

Farsi carico di tutti, a cominciare dai dimenticati e dai meno garantiti: non era questo il cuore della rivoluzione basagliana?

Non era stato anche il progetto di don Lorenzo Milani, che era entrato a Barbiana, un posto dimenticato (da Dio si spera di no, dagli uomini certamente) né più né meno dei manicomi?

Entrambi alla guida di un progetto politico, nel senso più nobile e meno desueto del termine, avevano capito che occuparsi di tutti, fare in modo che come nella parabola della pecorella smarrita nessuno andasse perduto, significava preoccuparsi di ciascuno, significava accettare il rischio di uscire dai propri recinti e dalle proprie sicurezze, dalle situazioni comode che giustificano l’immobilismo, per andare in cerca della pecora perduta, perdendo tempo con lei e mettendo in conto le lamentele degli altri.

Ma significava anche affrontare la paura della diversità. Una paura che siamo soliti cercare di neutralizzare, o di provare ad arginare, alzando muri di protezione e tracciando confini, isolando quelli che non corrispondono ai canoni o che sono potenzialmente pericolosi: perché si comportano in maniera strana o perché vogliono rubarci il lavoro. Tuttavia non basta un farmaco a neutralizzare la follia o un decreto di espulsione a impedire a intere popolazioni di scappare dalla fame e dalla guerra. È in gioco il nostro rapporto con l’altro e con gli altri. E l’altro, come sostiene Pier Aldo Rovatti in “La follia, in poche parole” (Bompiani, Milano 2000), «è il perturbante che sconnette ogni riflessione che presuma di bastare a se stessa, che mette un bastone di traverso sul sentiero della volontà di potenza individuale. Ma l’altro è anche la sola via d’uscita, ciò che salva dalla follia narcisistica dell’io e dal delirio di onnipotenza del sapere». L’altro è la misura della nostra umanità ma anche la sua precondizione. E gli altri, tutti gli altri, compresi i matti di Basaglia e gli ultimi di don Mario, diventano (o cercano di diventare) il criterio delle scelte e delle azioni del mio impegno, l’orizzonte ineludibile del mio affacciarmi all’esterno.

Nell’associazionismo, in particolare nell’Azione Cattolica (realtà in cui mi sono formata e in cui ho svolto per anni un servizio educativo), dove la tentazione di guardare solo agli iscritti, ai praticanti, a quelli che frequentano la parrocchia e l’oratorio, incombe, mentre la popolarità, una delle caratteristiche dell’associazione, ci richiama a uno sguardo ampio, estroverso, cattolico appunto, cioè universale.

Nella conduzione del giornale (per dieci anni ho diretto il settimanale triestino Vita Nuova), dove sarebbe più facile farsi guidare dalle aspettative degli abbonati e dei lettori più fedeli, mentre il valore di bene pubblico dell’informazione, a servizio della democrazia e in particolare di chi non ha voce, ci richiama a uscire dal terreno dell’autoreferenzialità e a ricercare il confronto, presupposto per crescere.

Nell’amministrazione della Città (sono stata per cinque anni vicesindaca di Trieste), dove si corre il rischio di rappresentare solo chi ti ha eletto e di diventare ostaggio delle loro pretese, mentre il servizio al bene comune, unico obiettivo possibile di un’azione politica, ci richiama ad avere attenzione per ciò che è giusto e non per ciò che porta voti o fa aumentare il consenso, ad avviare processi e non a limitarci a organizzare eventi.

In tutti e tre i casi senza dimenticare la dimensione comunitaria della proposta e la forza irrinunciabile della squadra. Basaglia, del resto, non era arrivato da solo, e a Gorizia come a Trieste prima di aprire il manicomio aveva aperto casa sua e la sua famiglia. E si era preoccupato di creare connessioni con il territorio, lavorando a una soluzione che potesse essere paradigmatica e guardasse lontano.

Basaglia è stato capace di mettere la malattia (ovvero la differenza) tra parentesi e di rimettere al centro la persona, dando attuazione a un altro dei principi cardine del nostro ordinamento costituzionale e del nostro vivere comune: la solidarietà. All’origine delle sue prime fondamentali e significative riforme, infatti, come la rimozione delle inferriate alle finestre, la proibizione della camicia di forza, la dismissione del camice bianco, c’era innanzitutto la volontà di offrire aiuto a esclusi privi di cittadinanza e di adeguata difesa, a uomini e donne ridotti a numeri di matricola, a scarti rinchiusi in luoghi che erano diventati dei veri e propri depositi di spazzatura, a cui non ci si avvicina a causa dell’odore e dell’inutilità della funzione e che ti fanno dormire sonni tranquilli, perché ciò che non vedi non ti interpella. Ma «il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità», un nostro simile che è stato più sfortunato, che non ha avuto le nostre stesse possibilità, e a Basaglia il malato come persona interessava molto più della malattia, e la sua era, per sua stessa ammissione, «più che una nuova proposta psichiatrica, una denuncia civile», un atto di accusa verso una società che nonostante gli impegni presi nella Costituzione tutela solo i ricchi, i già garantiti, che raramente risultano pazzi da internare.

“Chi non ha non è” recita un proverbio calabrese che il padre della 180 era solito citare spesso. Che poi era quello che predicava don Lorenzo Milani in quel borgo di 39 anime sperduto nel Mugello. Che poi è l’essenza del Vangelo, di cui la rivoluzione basagliana potrebbe essere definita una versione laica. Ma in realtà è l’unica faccia della stessa umanità.

Ed è proprio l’umanità che Basaglia introduce nel suo rapporto con i pazienti, perché come diceva Assunta Signorelli, una delle sue allieve, «senza partecipazione emotiva e complicità non c’è possibilità di curare nel senso più vero del termine: quello del prendersi cura».

È l’I care di don Milani, quel mi sta a cuore che si contrappone al me ne frego.

Cosa serve per trasformare uno slogan in uno stile di presenza nella concretezza del quotidiano? Come ha fatto Basaglia a curare i suoi matti, Milani a educare i suoi ragazzi? Il segreto è lo stesso che la volpe rivela al Piccolo Principe: «È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante». La stessa strada praticata da Basaglia per curare la sofferenza delle persone: creare dei legami attraverso l’ascolto, la vicinanza, la condivisione di pesi spesso insostenibili. In fondo, come canta Simone Cristicchi in “Ti regalerò una rosa”, la canzone che ha portato nelle case degli italiani il dramma dei manicomi, «la mia patologia è che son rimasto solo». Solo essere riconosciuti ci consente di non morire: si può esistere solo con un supplemento di attenzione. E con una professione di fiducia. Un investimento nelle possibilità di chi ci sta accanto, nella convinzione che non c’è nulla e nessuno per cui non c’è più niente da fare, anche le cose impossibili possono essere realizzate. «Vede, — disse Basaglia a un giornalista durante il giro di conferenze in Brasile l’anno prima di morire — la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile».

Per rendersene conto basta andare a San Giovanni a Trieste: nel luogo dove sorgeva l’ex ospedale psichiatrico provinciale ora c’è un parco a disposizione della città in cui hanno trovato spazio l’Università, l’Azienda sanitaria, degli istituti superiori, un museo, uno spazio per conferenze, un teatro, un bar, una palestra, alcune cooperative sociali… e seimila rose!

Dove c’era un fetore insopportabile, risultato di quel concentrato di ogni tipo di deiezione umana di cui sono impregnate le pareti di tutti i manicomi, ora regna il profumo. Il profumo della bellezza e della cura, frutto di quella deistituzionalizzazione che ripara luoghi e produce il bello. E il bello è terapeutico. Le rose, diffuse in tutto il parco (perché la ghettizzazione fa male anche ai fiori, non solo alle persone), presenti già nel progetto originario del manicomio, che risale ai primi del Novecento, sono state riconfermate anche dopo la dismissione dell’ospedale psichiatrico come nesso tra passato e presente e occasione per creare bellezza e riavvicinare la cittadinanza a questo luogo. Come le persone, non sono tutte uguali: ognuna ha un nome. Come le persone necessitano di cura e di attenzione. E di protezione in situazioni di particolare avversità. E di tempo. «Ogni creatura» scrive Bertold Brecht nella poesia, una delle sue più belle, dedicata all’infanticida Maria Farrar, «ha bisogno dell’aiuto degli altri». Il parco di San Giovanni e l’esperienza basagliana, che qui è maturata e qui ha trovato compimento, anche se di certo non tutti i problemi sono stati risolti, dimostrano che tutto può essere trasformato, riparato, rigenerato, persino i traumi più gravi. Non esistono bacchette magiche né conclusioni felici assicurate (l’unica cosa certa per Basaglia è che «la malattia si aggrava e diventa irreversibile all’interno del manicomio»), ma un grande capitale a disposizione: il capitale umano. La parola chiave per farlo fruttare è la parola insieme.

Questa è stata la grande lezione di Basaglia, il metodo rivoluzionario, ancora attualissimo benché poco praticato perché molto faticoso. Un metodo politico condiviso anche da don Milani, che non a caso diceva: «Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».

È la promessa contenuta nella nostra Costituzione, di cui parlavamo all’inizio: sono passati settant’anni e di strada da fare ce n’è ancora tanta, a volte anzi si ha la sensazione di tornare indietro, di aver accumulato tanta stanchezza, senza aver guadagnato neanche un metro. Ma c’è una cosa a cui non dobbiamo abdicare, una virtù fuori moda che Franco Basaglia non ha mai smesso di praticare e a cui, pur dichiarandosi non credente, non ha mai smesso di credere: la speranza. La speranza, come ha ricordato nell’orazione funebre Michele Zanetti, il giovane presidente democristiano della Provincia che lo chiamò a Trieste, in un domani migliore da costruire assieme, spendendo con generosità i propri talenti.

E anche se il presente è più buio di quarant’anni fa e non si vedono luci all’orizzonte, non è mai troppo tardi per cominciare.

*Questo contributo è apparso nel volume “La rivoluzione dentro. Per i quarant’anni della legge 180”, a cura di Francesco Stoppa, fotografie di Fabio Fedrigo e Ulderica Da Pozzo, Libreria al Segno Editrice, Pordenone 2018, euro 15,00).

Foto di Claudio Ernè


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