Fiamme in Amazzonia, non è “solo” un incendio devastante

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Non è un altro incendio d’agosto, pur se di un’estensione cataclismica. Né c’entra qualcosa la siccità: com’è noto, le selve pluviali si caratterizzano per essere immerse nell’umidità, spesso tanto intensa da risultare insopportabile. L’autocombustione appare men che improbabile. E’ un incidente, certo; ma all’interno di una scelta politica che deliberatamente ignora, anzi disprezza ogni criterio di sviluppo sostenibile, pur di rimuovere l’economia brasiliana dalle sabbie mobili in cui è affondata progressivamente in questi ultimi anni. Un incidente, dunque, prevedibile e previsto.

Già vissuto più volte in passato, sebbene non con l’infernale crepitìo che in questi giorni sta riducendo in cenere l’Amazzonia meridionale, tra Brasile e Bolivia. Una tragedia che sconvolge i brasiliani e li porta a protestare a centinaia di migliaia nelle piazze, ogni giorno, in tutto il paese. E che non segnala semplicemente un attentato globale e micidiale all’ambiente: bensì la volontà del presidente Jair Bolsonaro di cercare una fuoriuscita dalla crisi nell’incremento dell’export, invece che nel riequilibrio del mercato di consumo interno.

Da mesi sono disponibili documenti di diverse commissioni delle Nazioni Unite e di prestigiose fondazioni internazionali che analizzano i progetti amazzonici dell’attuale governo di Brasilia (in cui non c’è un solo ministro o sottosegretario di fede ecologista) prospettando esattamente i rischi ecologici esplosi nelle ultime ore in un irreversibile disastro. Né mancano precedenti. I governi autoritari di destra hanno sempre guardato all’Amazzonia come a un asset tanto gigantesco quanto improduttivo. Uno spreco da sanare. Una terra da ricondurre alle logiche correnti di mercato.

La sua straordinaria biodiversità è stata comparata all’incanto estetizzante d’un romanticismo buono per poeti e anime belle, gli abitanti superstiti (il 56 per cento degli indigeni brasiliani non assimilati, 250mila persone appartenenti a un’ottantina di diverse etnie) visti come un fastidioso residuo di primitivismo. “Se l’Amazzonia è uno dei polmoni con cui respira il mondo, che il mondo ci paghi l’aria depurata dalla nostra foresta così come paga il petrolio”, mi disse 50 anni fa Antonio Delfim Neto, superministro economico dell’allora dittatura militare, uomo di non comune intelligenza, cultura e cinismo. Cominciò con la denominata Perimetral de la Selva, alla fine degli anni Sessanta. Poi fu la volta della Diagonal. Interrompere con una serie di strade camionabili la continuità territoriale della foresta pluviale più vasta del mondo e l’eccezionale biodiversità che vi si trova, assolutamente unica, era la premessa ai progetti di commercializzazione. Gli incendi sono fin dall’inizio della deforestazione una pratica continua di ripulitura dei suoli. A volte i venti li rendono impossibili da circoscrivere. Più spesso sono lo strumento per mettere le popolazioni e le autorità locali di fronte al fatto compiuto.

Dalla fine del secolo scorso, la selva amazzonica brasiliana è stata amputata di una superficie pari a quasi 2 volte quella dell’Italia. Grandi società vi hanno vi hanno installato allevamenti bovini da carne e coltivazioni di soia transgenica che puntano a fare del Brasile il primo esportatore del mondo di questi prodotti, in competizione con Stati Uniti e Argentina. E premono per disporre di sempre nuove terre. Mentre la volontà d’incrementare anche l’export di legname ha portato ad estendere anche il taglio di alberi di media e bassa densità (che costituiscono il grosso della grande vegetazione pluviale). Si tratta di dati relativi agli ultimi 3 anni e confermati dagli stessi ministeri competenti: Medio Ambiente (MMA), Scienza, Tecnologia, Innovazione e Comunicazione (MCTIC). Riferiti pertanto essenzialmente ai periodi del precedente governo di Michel Temer. Ma la composizione di questo presieduto da Bolsonaro non lascia certo sperare in un’inversione di tendenza. Al contrario, fin dal suo esordio giornali come la Folha di San Paulo, la rivista Veja che pure ne ha favorito la campagna elettorale, e tutte le maggiori associazioni ambientaliste hanno espresso preoccupazione per l’ostilità alla conservazione del patrimonio amazzonico che traspariva dalla scelta dei programmi e dei funzionari incaricati di dirigerli. Ministro dell’Agricoltura, Alimenti e Foreste, Tereza Cristina, è un’imprenditrice sostenuta dalle multinazionali dell’agrochimica, favorevole ai concimi chimici e agli anticrittogamici attivi. Sulla stampa è stata ribattezzata la dama dei veleni. L’avvocato Ricardo Salles ha assunto il ministero dell’Ambiente dichiarandosi “tendenzialmente favorevole agli accordi di Parigi sul clima, ma non acriticamente…”. All’Alto Segretariato da cui dipendono le riserve indigene e la riforma agraria, Bolsonaro ha nominato un amico personale: Luiz Antonio Nabham Garcia, proprietario terriero e noto organizzatore di milizie personali armate. Poi agli Affari Sociali, Diritti Umani, Donna e Famiglia, destinata a occuparsi anche dell’universo autoctono, c’è Damares Regina Alves, un’integralista evangelica che propone il carcere per le donne che abortiscono. E non è un mistero che nella foresta gli indigeni praticano sistemi di controllo delle nascite che hanno ben poco a che vedere con quelli in discussione nel mondo urbano occidentale. E infine lo stesso Jair Bolsonaro, al quale la Fondazione Nazionale dell’Indio (FUNAI) non piace. Lo dice e ripete. Afferrandosi agli alterni risultati di questa storica organizzazione comunque rispettata da antropologi e indigenisti del mondo intero, vuole smembrarla. Non considera decisivo che la Corte Costituzionale abbia sancito che non è nei suoi poteri.


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